Stampa

DONNE ESCLUSE DALLE REGIONALI DEL LAZIO, PIU' MODERNI CENTO ANNI FA CON LA SENTENZA DI ANCONA

 Sentenza della Corte di Appello di Ancona del 25 luglio 1906*

estensore il presidente Ludovico Mortara
in «Giurisprudenza Italiana», LVIII (1906), III, coll. 389-394



Secondo la vigente legge elettorale politica, le donne che possiedono gli altri requisiti di capacità, hanno diritto di essere iscritte nelle liste elettorali1.

Le signore Tosoni Dina, Simoncini Emilia, Berna Giulia, Bacchi Carolina, Graziola Giuseppina, Bagaioli Palmira, Capobianchi Adele, Matteucci Iginia, Tesei Enrica, tutte di Sinigaglia, e Mandolini-Matteucci Luigia di Montemarciano, domandarono alla commissione elettorale provinciale di Ancona di essere iscritte nelle liste elettorali politiche del corrente anno.
La suddetta commissione reputò che le istanti possiedano i requisiti legali per l'iscrizione, godendo esse per nascita dei diritti civili e politici del regno, avendo compiuto il ventunesimo anno di età, sapendo leggere e scrivere ed essendo munite della patente di maestre elementari. Perciò le ammise all'iscrizione, con la riserva dell'accertamento dello stato penale.
Il procuratore del re presso il tribunale di Ancona appellò regolarmente avanti questa corte contro tale deliberazione per il motivo che alle donne in genere per essere iscritte fra gli elettori politici manca il requisito del godimento dei diritti politici richiesto nell'art. 1, n. 1, della legge elettorale, t. u. 28 marzo 1895, e che inoltre dalle disposizioni della stessa legge e dall'intenzione del legislatore risulta essere particolarmente sancita la loro incapacità all'esercizio del diritto elettorale.
La questione deve essere in questa sede esaminata e decisa con la scorta di criteri puramente giuridici ed esegetici: senza divagare a discussioni teoriche pertinenti alla scienza e all'ufficio del legislatore.
A sostegno della propria deliberazione la commissione elettorale provinciale pose come fondamento la norma di diritto pubblico, scritta nell'art. 24 dello Statuto, secondo la quale tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono eguali dinanzi alla legge e tutti godono egualmente i diritti civili e politici e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalla legge.
Si presenta in primo luogo la questione se codesta regola contempli anche le donne, il che
viene negato dal pubblico ministero appellante, il quale segue l'opinione, del resto non nuova, che alle donne secondo la vigente costituzione dello Stato non spettino diritti politici.
Simile interpretazione dell'articolo citato non può essere accolta, perocché è chiaro che il nome di regnicoli comprende i cittadini dei due sessi: e ciò viene messo fuori dubbio dall'art. 25 nel quale, sostituito quel nome dal pronome: essi, è stabilito che «essi (cioè tutti i regnicoli) contribuiscono indistintamente nella proporzione dei loro averi ai carichi dello Stato» e nessuno ha dubitato mai che le donne siano contribuenti in proporzione dei loro averi al pari degli uomini.
D'altronde è assolutamente inesatta la proposizione che le donne non godano dei diritti politici, poiché diritti fondamentali, vale a dire la libertà individuale, la inviolabilità del domicilio, la libertà di manifestare le proprie opinioni per mezzo della stampa, il diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi, garantiti negli articoli 26, 27, 28, 32 dello statuto, sono certamente comuni ai due sessi, ed è altrettanto certo che questi sono eguali nel godimento dei diritti garantiti dagli articoli 29 (inviolabilità della proprietà privata), 30 (illegittimità di tributi non imposti per legge), 31 (inviolabilità degli impegni dello Stato verso i suoi creditori), i quali sebbene si riferiscano al patrimonio, pure, in quanto regolati dallo statuto nei rapporti con lo Stato, hanno carattere di diritti politici.
L'errore della proposizione anzidetta ha origine dal fatto supposto che siano diritti politici soltanto quelli che si estrinsecano nell'esercizio di pubbliche funzioni o nell'investitura di cariche pubbliche.

* Già pubblicata in CAMERA DEI DEPUTATI, Il voto alle donne. Le donne dall'elettorato alla partecipazione politica, Roma, 1965, pp. 101-107, ora si legge anche in Donne e diritti. Dalla sentenza Mortara del 1906 alla prima avvocata italiana, a cura di Nicola Sbano, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 207-213 (dove è pubblicato pure il testo integrale della sentenza della Corte di Cassazione di Roma che accoglie il ricorso presentato contro la sentenza "Mortara" dal procuratore generale presso la Corte d'Appello di Ancona, che viene pertanto annullata), e in Donne alle urne. La conquista del voto. Documenti 1864-1946,
a cura di M. d'Amelia, Roma, Biblink editore, 2006, pp. 80-87.

1 Per quanto è del caso, intorno al valore delle opinioni personali dei compilatori delle leggi e al metodo
d'interpretazione, si rammenti l'ultima parte della requisitoria del procuratore generale della corte di cassazione, senatore QUARTA, riferita in nota alla sentenza 7 giugno 1906 [...], e precisamente il brano inserito a col. 208, ove è riportata la conforme opinione del presidente della cassazione francese BALLOT-BRAUPRÉ, nel discorso pronunciato il 29 ottobre 1904, solennizzandosi in Parigi il centenario del codice napoleone.

Il diritto elettorale è a sua volta un diritto politico, il quale alla stregua delle premesse considerazioni spetta a tutti i regnicoli, salve le eccezioni determinate dalla legge.
Tali eccezioni devono essere espressamente stabilite, e non è permesso indurle dal silenzio della legge, il quale anzi, secondo la regola della buona ermeneutica, le esclude.
La cittadinanza considerata come diritto politico eminente e fonte di tutti gli altri, è disciplinata nel codice civile con disposizioni generali comuni indubitabilmente ai due sessi, quantunque delle donne non sia fatta menzione che in modo occasionale. Ma la stessa forma di tale menzione, quale per esempio s'incontra nella prima parte dell'art. 7, cod. civ., attesta la perfetta parità dei due sessi di fronte alle regole che concernono la cittadinanza.
Riconosciuta in massima l'appartenenza dei diritti politici anche alle donne, non è dato seguire il ministero pubblico appellante nella esegesi nell'articolo 1 della legge elettorale politica, imperocché, se è vero che essa richiede il godimento dei diritti civili e politici nel regno, non è però vero che col porre la seconda di tali condizioni esclude «ipso iure» le donne dal diritto elettorale.
Allorquando il legislatore ha voluto stabilire, a ragione veduta, che le donne siano escluse dal diritto elettorale, ha sancito contro le medesime una espressa interdizione; così per l'esercizio del diritto elettorale amministrativo si ha l'art. 26 della legge comunale e provinciale 20 marzo 1865 contenente la identica disposizione mantenuta poi nell'art. 30, lettera B, del testo unico 1° maggio 1898 ora vigente.
Un'eguale interdizione non si trova nella legge elettorale politica, come ne conviene il pubblico ministero appellante, il quale studia di desumere l'interdizione dagli art. 8 e 12 della stessa legge, ove è stabilito che al marito per il conferimento del diritto elettorale, si tiene conto delle imposte pagate dalla moglie (art. 8 ) e che la vedova e la moglie separata legalmente possono delegare il loro censo a scopo elettorale al figlio o al genero (art. 12).
Queste disposizioni, considerate isolatamente, valgono a dimostrare, che allorquando la donna come moglie e come madre fa parte di una famiglia in cui vi siano il coniuge o discendenti maschi, in primo grado, o affini parificati a questi, la legge preferisce che sia assegnato il suo censo ai maschi della famiglia come titolo pel diritto elettorale: ma a tutto rigore non bastano da sole a dimostrare che alla donna in qualunque condizione e per qualunque titolo sia negato codesto diritto.
Siffatta interpretazione restrittiva logicamente si impone per il confronto fra la legge elettorale politica e quella comunale e provinciale dianzi citata.
Tanto nel testo della legge 1865 (art. 21 e 22) come in quello uscito dalla riforma del 1888 (art. 17-18 del t.u. vigente) furono accolte pel censo delle donne maritate o vedove, in relazione all'esercizio del diritto elettorale amministrativo, disposizioni identiche a quelle che per l'elettorato politico furono scritte negli art. 8 e 12 testé esaminati della legge elettorale politica.
Ma non parve ai legislatori del 1865, né a quelli del 1888, di avere con tali disposizioni sanzionato la interdizione generale dell'elettorato amministrativo per ragione del sesso, perocché in articoli rispettivamente successivi, l'uno e l'altro stimarono necessario di formulare la dichiarazione esplicita che le donne non sono né elettori né eleggibili. È noto come questa esclusione sia stata oggetto di lungo esame nei lavori che precedettero la riforma del 1888. La vivace discussione ebbe vicende alterne finché si chiuse col mantenimento dello status quo, cioè colla ripetizione della clausola espressa sanzionatrice del divieto a tutte le donne di esercitare il diritto elettorale amministrativo.
Durante tale discussione a nessuno venne mai in mente di obiettare che le norme già deliberate circa l'attribuzione del censo della moglie al marito e circa la delegazione di quello della vedova, o della moglie separata, avessero implicitamente risoluta la questione; tutti quelli che in vario senso parteciparono al dibattito, attaccarono o difesero la clausola proibitiva generale, espressa, bene intendendo che la mancanza di essa avrebbe significato senz'altro, in conformità dei principii generali, l'ammissione della donna all'esercizio dell'elettorato.
La legge elettorale politica, vuoi nel testo anteriore al 1865 (quello del 1859), vuoi nella redazione approvata dalla riforma del 1882, in una data cioè intermedia fra le due compilazioni della legge comunale e provinciale, conservò bensì le particolari norme intorno al censo delle donne maritate o vedove con prole, ma non accolse mai il divieto generale esplicito dell'esercizio del diritto elettorale per ragione del sesso; la differenza, dal punto di vista esegetico, ha un evidente altissimo valore.
Non si potrebbe sostenere che la volontà negativa del legislatore, categoricamente espressa nella legge comunale e provinciale, si riverberi per necessità logica sulla legge elettorale politica, argomentando dalla maggiore importanza del voto politico in confronto all'amministrativo. Una simile argomentazione sarebbe molto discutibile in sé, potendo altri osservare che il voto politico è determinato dalle grandi e semplici linee delle idee fondamentali che dividono i partiti, mentre quello amministrativo suppone la coscienza e la retta valutazione di complessi problemi d'indoleeconomica, amministrativa, tecnica, sanitaria, finanziaria, ecc., i quali devono essere risoluti direttamente da coloro che vengono eletti a comporre i consigli delle provincie e dei comuni.
Ma, a prescindere da simili dispute teoriche, cui la corte si mantiene estranea, basta considerare che ogni altra specie d'incapacità elettorale, comprese quelle determinate da motivi sottratti a qualsiasi discussione (interdizione, condanna a grave pena), trovasi singolarmente ed espressamente sancita, così nella legge comunale e provinciale come nella elettorale politica, per rigettare, come arbitraria, l'ipotesi avanzata mediante la pretesa argomentazione de minori ad maius.
A torto poi si dice essere stata in altre leggi ritenuta la necessità di esplicita attribuzione di diritti politici alle donne, poiché nella legge sulle istituzioni pubbliche di beneficenza, tali diritti risultano ad essa riconosciuti, mediante la semplice omissione di speciale norma o clausola proibitiva; e la legge del 9 dicembre 1877 sulla loro capacità a testimoniare negli atti pubblici abrogò a sua volta alcune disposizioni precedentemente in vigore (sono abrogate le disposizioni di legge che escludono le donne, ecc.). È vero che nell'art. 15 della legge sui probiviri fu sancita espressamente la iscrizione delle donne nelle liste elettorali, ma giova considerare che qui non si contempla un vero e proprio diritto politico, giacché si provvede alla disciplina di rapporti nascenti dal contratto di lavoro ed attinenti in modo esclusivo agli interessi patrimoniali; sarebbe eccessivo convertire questa specie di rapporti in diritti politici solo perché organizzati a foggia di pubblica funzione; ond'è tutt'altro che azzardato asserire che la esplicita menzione delle donne nel testo citato sia stata semplicemente superflua, anche nell'ipotesi che il loro sesso fosse privo, per
regola, dei diritti politici.
Pertanto, salvo quanto è stabilito, in relazione al censo negli artt. 8 e 12 della legge elettorale politica, non vi sono argomenti esegetici i quali conducano necessariamente a ritenere che essa interdica alle donne il diritto elettorale.
Rimane l'argomento dell'intenzione del legislatore, la quale si arguisce contraria al riconoscimento di siffatto diritto mediante l'invocazione dei lavori preparatori e in particolare delle dichiarazioni fatte dal relatore Zanardelli. Prima di tutto, su questo proposito giova osservare come la testimonianza del relatore condurrebbe a conseguenze esorbitanti, giacché egli, oltre ad esprimere la propria opinione contraria al voto femminile, si arrischiò perfino a suffragarla con la supposta contrarietà delle donne a reclamare il diritto al voto; supposizione affatto gratuita, non appoggiata allora a verun elemento di fatto, contraddetta oggi positivamente dal fatto che dà occasione al presente esame, e soprattutto difettosa perciò che ad una argomentazione giuridica sostituì una figura retorica, cioè una iperbole, non idonea a veruna dimostrazione scientifica. Lo Zanardelli, fra l'altro, rilevava non essere stato proposto d'inserire nella legge un emendamento, il quale conferisse in modo esplicito il diritto di voto politico alle donne, ma egli trascurò di esaminare se la mancanza di una esplicita interdizione non bastasse, nel sistema del nostro diritto pubblico, ad appagare le aspirazioni delle donne all'eguaglianza con gli uomini di fronte a quella legge, sia pure che tali aspirazioni avessero a manifestarsi molti anni dopo la promulgazione della medesima.
Per l'art. 3, disp. prel, cod. civ., l'intenzione del legislatore va ricercata nel testo della legge, non fuori di esso. I lavori preparatori possono essere un sussidio, non una fonte diretta per tale ricerca. D'altronde nell'ordinamento attuale della funzione legislativa, l'opinione di taluno fra i cooperatori alla compilazione della legge è sempre un indizio incerto della vera intenzione dell'organo collettivo donde emana la volontà in essa consacrata. Aggiungasi per di più che la legge è formula di precetto generale destinata a governare i bisogni e le contingenze della vita sociale per un tempo illimitato, adattandosi alla loro variabilità in modo da rispondere sempre al fine di tutela nell'ordinamento civile. Essa non si cristallizza in una forma iniziale per sempre irriducibile, ma vive la vita stessa della civiltà ed è animata dallo spirito di questa. Indagare il significato, dichiararne l'intenzione, è compito del magistrato nel tempo in cui sorge la controversia su tale proposito e in relazione al caso dal quale è essa occasionata. Sia pure che l'animo dei compilatori di una regola non fosse propenso ad un particolare adattamento pratico della medesima: ciò non toglie che questo adattamento possa e debba essere riconosciuto legittimo dal magistrato allorché l'ermeneutica guidata da criteri razionali gli dimostri che il testo lo autorizza.
In estrema ipotesi, se vi può essere un dubbio intorno all'intenzione del legislatore, questo va risoluto nel senso della libertà, trattandosi appunto di determinare l'estensione di un diritto politico che qualcuno definì pure diritto naturale, e che sotto questo profilo quasi nessuno contesta appartenere a tutti i soggetti capaci, senza distinzione di sesso. Per questi motivi, respinge l'appello.

Info: http://www.unime.it

Aggiungi commento

I commenti sono soggetti a moderazione prima di essere pubblicati; è altrimenti possibile avere la pubblicazione immediata dei propri commenti registrandosi ed effettuando il login.


Codice di sicurezza
Aggiorna