In questi giorni di nuovo governo e di anniversari si moltiplicano discorsi
retorici sul ruolo delle donne nella vita politica e sociale italiana.
Ricorrono 60 anni dal voto alle donne e tra tante ipocrite voci imbarazzate
per la miseria della rappresentanza delle donne in questo nuovo governo
"progressista" spetta certamente a noi anarchiche fare un po' di chiarezza
su quello che è la presenza pubblica delle donne in questo paese. Le
elezioni amministrative nelle grandi città hanno eletto ai consigli
comunali, quindi al governo delle amministrazioni, pochissime donne (a
Milano 10 su 60 eletti in tutto, a Torino 8, a Roma 5, a Napoli 0). Perché?
Questi dati non sono che l'immagine più appariscente ma anche più vuota di
una realtà sociale desolante. La rappresentanza politica è legata, come il
voto, ad un meccanismo di trasferimento di responsabilità individuale e
collettiva su qualcun'altro che avrebbe il compito di lavorare per
l'interesse di tutti, e su questa delega si fonda una delle più grandi
mistificazioni della democrazia borghese. Le donne sono socializzate sin da
piccole a rinunciare a gestire la propria indipendenza e la propria
responsabilità, se non nei ruoli biologici che sono loro accordati da una
società profondamente patriarcale che culturalmente si sposta sempre più a
destra. Pertanto l'immagine del potere politico è sempre maschile e la
figura dell'eletta (quando c'è) non coincide con quella della donna libera e
responsabile, ma con quella della madre di famiglia: per questo alle donne
vengono solo affidati ministeri di cura.
Il dibattito sulla "rappresentanza" politica delle donne o sulle "quote" è
vuoto ed inutile perché in un paese dove culturalmente si inneggia alla
figura della madre biologica o simbolica come riferimento massimo per il
femminile, il posto delle donne è la casa, il privato e non il pubblico.