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Il cinema verità racconta le borgate e la fine di Rabin - Tempo Libero

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

VENEZIA. Venezia, sesto giorno, finalmente alla Mostra del Cinema si vede un po' di verità. Il bilancio sulla prima metà del festival non è proprio entusiasmante: fuoriclasse Sokurov, ottimo il francese "L'hermine" e tuttavia troppo "piccolo" per riuscire a immaginare che possa conquistare uno dei premi principali, per il resto si è vista parecchia velleità e poca sostanza, confezioni di pregio con poco cuore in un insieme generale complessivamente molto decadente. Rientra pienamente nel discorso l'ultimo dei film del concorso in ordine di passaggio, il drammone sud-africano di Oliver Hermanus "The Endless River", una storia di violenza, destini incrociati e solitudini che fin dalla grafica dei titoli di testa, promette di essere quello che non è. Vorrebbe essere un thriller dell'anima, un racconto di impianto classico in vecchio stile a metà tra il noir e il western ma di tutto questo resiste solo l'esplicita dichiarazione di intenti. Al netto delle assurdità, degli indugi e i tempi morti, restano solo lacrime e lo stupore nel trovare un film del genere in concorso.

In mezzo a tanta patina, il cinema "vero" di Claudio Caligari (purtroppo fuori concorso) porta con sé una ventata di ossigeno. Duole constatare che c'è più vitalità nel suo film postumo che nella maggior parte del cinema dei vivi visto nei giorni scorsi. Accolto con calore sincero il suo nuovo viaggio a Ostia tra i ragazzi di vita della borgata che lui conosceva bene. La pellicola ottiene al volo, direttamente dal Lido, il bollino di "Film della critica" assegnato dalla commissione del Sindacato Critici Cinematografici Italiani proprio alla vigilia dell'uscita nelle sale italiane.

E ancora verità nuda e cruda, portatrice di un messaggio politico molto forte, arriva dall'israeliano Amos Gitai, qui forse al suo miglior film. "Rabin, the last day" trova ad accoglierlo un nutrito applauso. Un film importante, amaro, un altissimo esempio di cinema civile.

Sono passati quasi vent'anni dalla scomparsa del Primo Ministro israeliano leader del partito labourista Yitzhac Rabin, ucciso il 4 novembre 1995 da tre colpi di pistola inferti dalla mano di un colono sionista intenzionato a ostacolare, con qualsiasi mezzo, il processo di pace tra Israele e Palestina. L'attentato che si è consumato a Tel Aviv in piazza dei Re di Israele successivamente ribattezzata piazza Rabin, dopo una manifestazione in supporto agli accordi di Oslo ha lasciato un segno profondo nel suo Paese e nel mondo, uno di quegli eventi spartiacque che hanno cambiato il corso della Storia. «Quelle tre pallottole - dice il regista in conferenza stampa, dopo aver chiesto di osservare un minuto di silenzio per le nuove vittime di questo conflitto - hanno cambiato il destino di Israele. Quando il presente sembra così buio dobbiamo voltarci indietro a cercare una luce che illumini il cammino verso il futuro. È questo ciò che ho cercato di fare nel film. Grazie a Rabin abbiamo avuto una grande possibilità, ma la nostra breve speranza si è dissolta. Tuttavia si può ancora riflettere su ciò che è accaduto».

Gitai analizza i fatti che circondano quel tragico evento mescolando fiction e found footage in un originale e tesissimo thriller politico che - ci tiene a puntualizzarlo - al contrario ciò che fece Oliver Stone in "JFK", non contribuisce alla costruzione di un'ipotesi di complotto. «È l'ultra destra che lo insinua - prosegue - mentre io non credo che ci sia stato nessun complotto. Quella di Rabin è stata una morte annunciata, era scritto sui muri, i rabbini istigavano contro di lui. Lui era una persona speciale, aveva un forte carisma ma al tempo stesso era una persona modesta. Visto che era una persona di estrema integrità, quando non sono riusciti nell'intento di destabilizzarlo lo hanno ucciso. La destra vuole lavare le mani del senso di colpa, per questo insinuano che ci sia stato un complotto alle spalle. Ma è un'opinione che noi non sostentiamo, che si assumano le loro responsabilità».

La grande forza di Rabin? «Quella di aver compreso - afferma il cineasta - che per risolvere il conflitto era necessario arrivare a una soluzione di pace condivisa, quella di aver tenuto conto del fatto che quella terra appartiene anche ai palestinesi e bisogna trovare una soluzione nella convivenza». Il presente non è roseo - prosegue - non è un buon momento, non è un mistero: la cultura, l'arte, il cinema devono parlare a voce alta e svolgere il proprio ruolo anche se, purtroppo, le pistole ottengono risultati più immediati. Non credo ci sia il rischio di una guerra civile, ma piuttosto lo scivolare verso una limitazione delle libertà civili, dei diritti delle donne e….. Questo porterebbe a un arretramento civile e culturale che finirebbe per isolarci dal resto del mondo». Qualcuno dei presenti si chiede come sia possibile che la fazione moderata del paese resti sistematicamente in minoranza, la risposta di Gitai chiama ci chiama in causa: «Israele, come l'Italia, è un paese schizofrenico. Vi siete appena liberati dal tizio kitsch che vi ha governato per vent'anni eppure nel vostro paese avete anche persone sofisticate e intelligenti. Che cosa si può fare? Del resto il vostro precedente Presidente del Consiglio era molto amico del nostro. Avete ispirato il mondo, ma non sempre nel modo giusto».

Tra materiali d'archivio e ricostruzioni, Gitai espone fatti documentati. Rivediamo le immagini della manifestazione di Tel Aviv, l'attentato, rabbini

che istigano all'odio, coloni fanatici e singolari perizie psichiatriche che etichettano Rabin come «schizofrenico e deficiente». Resta addosso una sensazione di profonda inquietudine che trova origine in quel cclima di odio e fanatismo mai sopito. Leone d'oro?

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