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Il dilemma dei drusi del Golan «schiacciati» tra Israele e Siria

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Il confine che separa i fratelli

«El viento viene, el viento se va. Por la frontera…». Dagli amplificatori la voce di Manu Chao si diffonde tra i meleti. La «frontera» è lì, poche decine di metri più in là. E chissà se la scaletta scelta da Tarek Samara, ideatore e oste del bar-galleria «Collage», oasi tra i sentieri polverosi che attraversano i verdi frutteti del Golan, ha l’ambizione di riferirsi alla realtà. In questo scampolo di Montmartre incorniciato dalle mura antiche di una casa siriana, dove si servono birra, pizza, infusi fatti con le erbe coltivate in quelli che un tempo erano gli abbeveratoi degli animali, al tramonto si raduna la meglio gioventù di Majdal Shams: dreadlock, shorts, tatuaggi. Tutt’intorno, sui lampioni, sui tetti delle case, persino sui garage, sventola l’unica bandiera possibile da queste parti, il drappo multicolore del popolo druso, minoranza in Israele, come in Siria e in Libano. Ed è proprio al crocicchio tra quelle frontiere che ci troviamo, all’incrocio tra i tre Paesi che da tempo immemore ospitano i seguaci del culto che ebbe origine in Egitto nell’XI secolo. La strada che conduce a Majdal Shams, capitale del Golan occupato da Israele nel 1967, scorre lungo il confine libanese, minato al di qua e al di là del filo spinato e doppia le fattorie di Sheb’a, fazzoletto di terra sulle pendici del monte Hermon rivendicato dal Paese dei cedri, si inerpica dopo essersi lasciato alle spalle il bivio per Ghajar, villaggio siriano- alawita (la stessa minoranza cui appartiene la famiglia Assad), passato di mano innumerevoli volte nella sua travagliata storia, fino alla scissione sancita dalla «blue line» tracciata dalle Nazioni Unite — metà in Libano, metà in Israele — infine riunito sotto l’ombrello dell’identità fornita dallo stato ebraico, la cittadinanza concessa a tutti i residenti (nella foto sopra, Reuters, alcuni abitanti drusi del Golan dopo la morte dell’ex presidente Hafez Assad).

Quello di Ghajar non è il solo esempio di identità multiple, complesse, stratificate, a queste latitudini. Tarek, codino e barbetta da hipster, al bancone del suo locale garantisce per sé e i suoi avventori una sorta di extraterritorialità. Non vuole nemmeno provare a sbrogliare la matassa — chi sono io, arabo, druso, siriano, cittadino israeliano? — o stabilire una gerarchia. I suoi documenti, alla voce nazionalità, riportano «indefinita». Ma di una cosa è certo: «Io appartengo alla madre Siria e a tutto il mondo» dice. Nato sotto l’occupazione, 27 anni fa, non è mai stato oltre l’invalicabile frontiera, ma è cresciuto ascoltandone le storie in famiglia. «Sono religioso? L’alcol io non solo lo bevo, lo vendo» sintetizza. La fidanzata, bassista in un gruppo rock, però è drusa come lui. Le unioni miste non sono permesse: «Forse siamo programmati per innamorarci di ragazze druse» chiosa. La politica, in una terra che ne trasuda, gli interessa poco: «Non è detto che la mia generazione la veda come me. Alcuni qui sarebbero pronti a partire domani per andare a combattere a fianco dei fratelli drusi in Siria. Io non credo nella guerra, non la capisco. Ma soprattutto non credo nei confini». Eppure il confine, dal terrazzo di Al-Marsad, l’Arab Human Rights Centre in Golan Heights di Majdal Shams è così vicino che sembra di poterlo toccare. Salman Fakherldeen è la memoria storica del centro che dal 2003 pubblica rapporti e analisi sulla situazione di questa terra circondata da conflitti, ma dove «da più di cento anni non si spara un colpo e in tribunale si finisce al massimo per guida senza patente», reato diffusissimo tra i ragazzi di qui, pare (nella foto sotto, Reuters, soldati israeliani controllano una manifestazione di siriani sulle alture del Golan).

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Drusi siriani e israeliani come olio e acqua

A Majdal Shams, fino a poco tempo fa, si svolgevano con regolarità settimanale manifestazioni di piazza a favore di Bashar al-Assad, considerato l’unico possibile difensore delle minoranze in Siria. «I fratelli drusi, come gli yazidi, erano nel mirino dello Stato islamico, ma ora dopo tutto questo tempo e questo sangue versato, anche i sostenitori del dittatore hanno rinunciato agli slogan» spiega Salman. «Mentre la rivoluzione è diventata una guerra di religione e il dramma continua a consumarsi oltre la «buffer zone», la nostra vicenda ha assunto i tratti della tragicommedia» conclude amaro. «Resistiamo alla tentazione di chiedere la cittadinanza a Israele (un malvisto 10 per cento della popolazione lo fa, ndr), ma ci sentiamo più sicuri sotto l’occupante. Ho 63 anni e non ho mai votato, sono un membro della società civile, ma non partecipo alla vita politica del Paese. Perché per farlo, per essere un vero cittadino, dovrei avere la certezza di essere trattato in maniera egualitaria. E così non è. Noi, drusi siriani, e gli israeliani siamo olio e acqua, non ci mescoliamo, nonostante condividiamo lo stesso rovello. In Israele il dibattito identitario è acceso e profondo. Se noi drusi decidessimo di batterci per uno Stato ci troveremmo di fronte alle stesse cruciali domande. Ma non lo facciamo» (nella foto Ansa, donne druse).

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Un culto esoterico

Apolidi fin dalle origini, seguaci di un culto esoterico che mescola elementi dell’Islam, dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’induismo (credono nella trasmigrazione delle anime e nella reincarnazione), i drusi — a differenza di altri popoli senza patria — non hanno mai avuto aspirazioni nazionalistiche. Perseguitati nel corso della storia perché eretici, protagonisti di una diaspora che li ha dispersi ai quattro angoli del Medio Oriente, si conformano alle leggi del Paese che li ospita, mantenendo vivo il focolare. Indossa gli shirwal, i tradizionali pantaloni drusi, Sheikh Samich Natur, una personalità a Daliyat, cuore della regione del Carmel, morbidi declivi e cieli solcati dagli F16 dell’esercito israeliano, a solo due ore di auto dalle alture del Golan. Ed è all’al-Amama, tipico turbante bianco appannaggio dei religiosi, che Sheikh Natur si è ispirato quando si è trattato di trovare una testata per la rivista che ha fondato allo scopo di dare voce alla comunità drusa locale: qui la storia ha aggiunto al mosaico l’assai rilevante tassello palestinese. Sheikh Natur ha scelto il proprio campo. E non ha dubbi: «Se abbiamo un obbligo è verso i drusi, non verso gli arabi. E se c’è una bandiera per cui sono disposto a morire è quella israeliana, vivo qui, qui mi rispettano». Secondo lui, il rispetto è invece mancato da parte dei leader arabi quando due poliziotti drusi sono stati uccisi sulla spianata delle moschee lo scorso luglio. «Nessuno ci ha fatto le condoglianze» spiega Natur. «E la nostra colpa quale sarebbe? Fare il servizio militare. È vero, l’83 per cento dei maschi drusi serve nell’esercito, più degli ebrei che sono il 72 per cento. Ma in questo momento sono 970 i musulmani arruolati nelle forze di sicurezza israeliane. Qual è dunque il tabù?».

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Dal nazionalismo arabo al conflitto religioso

Nell’ufficio di Rafik Halabi, sindaco di Daliyat al-Carmel, 97 per cento di cittadini drusi, 3 per cento musulmani, nessun ebreo, nessun cristiano, campeggiano i ritratti di Shimon Peres, del premier Benjamin Netanyahu e del presidente Reuven Rivlin. «In questo villaggio i drusi sono la maggioranza, ma restiamo una minoranza nel Paese (circa 120.000 in totale tra Golan, Carmel e Galilea, ndr) rispetto agli ebrei che sono, a loro volta, una minoranza in Medio Oriente. A noi viene chiesto di essere leali tanto alla nazione araba come a Israele» spiega questo ex giornalista, per trent’anni corrispondente dai Territori occupati e poi direttore del primo canale della tv di stato israeliana. «La nostra è una situazione delicata. Un tempo il nazionalismo arabo poteva far riferimento a figure carismatiche — cristiani, musulmani e drusi — ora si parla solo di conflitto religioso e questo rende tutti più vulnerabili. Noi compresi. Personalmente ho la certezza di essere un arabo. Non tutti nella comunità ne sono più convinti, però. Ma non abbiamo esclusive: la crisi d’identità oggi è condivisa. L’uccisione dei due poliziotti ad Al-Aqsa ci mette in crisi. Siamo contro l’occupazione, ma non ci appartengono i simboli islamici. La soluzione? Per qualcuno è diventare «ancora più drusi», rinforzare la nostra identità. Col rischio di imboccare la strada del fanatismo. Di sicuro non è l’idea di uno stato druso indipendente la via d’uscita. L’aveva carezzata Ariel Sharon, sul Golan, ma da tempo non se ne parla più. E comunque io non credo che ci andrei a vivere. Una giusta aspirazione per questi tempi mi sembra invece il dialogo. Ma tra culture, non tra religioni». Dal Golan sembra fargli eco Salman Fakherldeen : «Se chiediamo libertà, allora dobbiamo anche essere capaci di darla, quando viene chiesta a noi. A Majdal Shams (nella foto sotto, Wikipedia) abita, da molte generazioni, una sola famiglia di cristiani. Il vero progresso si vedrà quando Elias, il cristiano, potrà sposare una giovane drusa. Liberare il Golan non è più importante che difendere la laicità e i diritti delle donne».

(Ha collaborato Miras Natur)

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13 settembre 2017

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