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"Fa trionfare una malsana ragion di Stato"

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Nobel contro Nobel. Ovvero, la caduta di un'icona. Un simbolo infangato: Aung San Suu Kyi. La paladina dei diritti umani e della democrazia calpestati dai militari nel suo Paese, il Myanmar, che da presidente sembra aver chiuso gli occhi e rimasta silente di fronte alla brutale repressione dei Rohingya, la minoranza musulmana del suo Paese. Prima Malala, poi Desmond Tutu ora anche Mohammed Yunus, anche loro insigniti del Nobel per la Pace, prendono fortemente le distanze da San Suu Kyi e da una scelta politica dettata da una "malsana ragion di Stato".

C'è chi sta raccogliendo firme perché il comitato norvegese che assegna il Nobel per la Pace compia un gesto senza precedenti: decidere la revoca del riconoscimento alla presidente birmana perché "i suoi silenzi e la copertura alla sanguinosa repressione interna, ledono con i principi fondativi del Premio". Altri, invece, non nascondono il loro dolore e lo smarrimento per un comportamento che confligge con la storia di Aung. Cercano di capire, si appellano a quella che oltre che collega di Nobel è stata un'amica personale, una compagna di viaggio sul cammino delle libertà.

"Una democrazia è tale quando riconosce e rispetta i diritti delle minoranze, siano esse etniche o religiose. Purtroppo ciò che da tempo sta avvenendo in Myanmar va nella direzione opposta" dice all'HuffPost il Nobel per la Pace 2006 Mohammed Yunus, il "banchiere dei poveri", l'ideatore del moderno microcredito in Bangladesh. "Negli anni ho imparato a conoscere Aung San Suu Kyi, ne sono diventato amico. So il prezzo personale che ha pagato per la sua battaglia di libertà, ed è proprio per quei valori condivisi che reputo grave, assordante, il suo silenzio in questa tragica vicenda. È come se una malsana ragion di Stato avesse avuto il sopravvento sul rispetto delle minoranze e dei diritti umani. Per questo - prosegue Yunus - torno a chiederle di parlare, di condannare la repressione in atto, di non esserne complice. Moltissime di queste persone hanno cercato rifugio nel mio Paese, il Bangladesh, ma la situazione, per quel che ne so, diventa ogni giorno più drammatica e insostenibile. E a pagarne il prezzo più alto, come sempre, sono i più indifesi: le donne, i bambini, gli anziani".

Yunus racconta di aver provato diverse volte a contattare la presidente birmana: "Ma lei – dice – non ha mai risposto". E non lo farà neanche dalla tribuna dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite: il portavoce presidenziale ha annunciato che Aung San Suu Kyi non parteciperà all'Assemblea Generale dell'Onu prevista la prossima settimana a New York. La scorsa settimana il segretario generale Antonio Guterres aveva annunciato di voler inserire nell'agenda dell'Assemblea la questione della crisi della minoranza etnica islamica dei Rohingya, in fuga dalle violenze nello stato del Rakhine, nella Birmania occidentale. Una scelta destinata a rinfocolare le polemiche e a spiazzare ancor di più quanti chiedevano parole chiare e coerenza a quella che per anni è stata vista, a livello internazionale, come il simbolo della lotta per la democrazia.

Un comportamento censurato, con parole impregnate di delusione di dolore, da un altro "mito", assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime di apartheid in Sudafrica: Desmond Tutu. Così scrive l'ottantaseienne Nobel per la Pace 1984: "Sono ormai anziano, decrepito e formalmente in pensione, ma rompo il mio voto a rimanere in silenzio sugli affari pubblici spinto da una tristezza profonda per il dramma dei Rohingya, la minoranza musulmana nel tuo paese. Per anni ho avuto una tua fotografia sulla mia scrivania per ricordarmi dell'ingiustizia e del sacrificio che hai sopportato per via del tuo amore e del tuo impegno a favore della gente del Myanmar. Sei stata simbolo della giustizia". E ancora: "Il tuo ingresso nella vita pubblica ha alleviato le nostre preoccupazioni per la violenza perpetrata ai danni dei Rohingya. Ma ciò che alcuni hanno definito "pulizia etnica" e altri "un lento genocidio" non si è fermato, e anzi di recente si è accelerato. Mia cara sorella: se il prezzo politico della tua ascesa alla più alta carica del Myanmar è il tuo silenzio, allora quel prezzo è troppo alto. Un Paese che non è in pace con se stesso, che non riconosce e non protegge la dignità e il valore di tutta la sua gente non è un Paese libero. È incoerente che un simbolo di rettitudine guidi un simile Paese e questo accentua il nostro dolore".

Dal 25 agosto, oltre 400.000 rohingya sono scappati dal Myanmar per andare verso il Bangladesh, e altre migliaia stanno arrivando ogni giorno. Secondo le prime stime, circa il 60% di loro sono bambini. Il numero cospicuo di rifugiati ha messo sotto pressione i campi per rifugiati preesistenti, con i nuovi arrivati che cercano un rifugio ovunque trovino spazio. "C'è una grave carenza di tutto, soprattutto di rifugi, cibo e acqua pulita" afferma Edouard Beigbeder, rappresentante dell'Unicef in Bangladesh. "Le condizioni sul posto mettono i bambini in serio pericolo di contrarre malattie legate all'acqua. Abbiamo un grandissimo compito di fronte a noi: proteggere questi bambini estremamente vulnerabili." Una protezione che chiama in causa Aung San Suu Kyi.

Dal più anziano alla più giovane Nobel per la Pace, Malala, premiata nel 2014. "Negli ultimi anni ho più volte condannato questo trattamento tragico e vergognoso. Sto ancora aspettando che la mia compagna di Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi faccia lo stesso". Più che un appello, quello di Malala Yousafzai – pachistana, venti anni, premiata per aver difeso il diritto delle ragazze all'istruzione e per ferita e questo condannata a morte dai talebani - suona come un possente j'accuse. In un comunicato diffuso su Twitter, Malala ha lanciato un appello condiviso oltre 10 mila volte in meno di 12 ore: "Ogni volta che guardo le notizie mi si spezza il cuore per le sofferenze di quel popolo. Chiedo che si fermi la violenza. Oggi abbiamo visto le foto di bambini uccisi dalle forze di sicurezza del Myanmar. Questi bambini non hanno fatto male a nessuno, eppure le loro case sono state incendiate e rase al suolo". Alla sua collega di Nobel la giovane pachistana chiede assunzione di responsabilità, E ripete, per tre volte, lo stesso concetto: "Sto ancora aspettando". Aspettando parole di condanna e un impegno a porre fine a quella che appare come una vera e propria "pulizia etnica".

Una richiesta rilanciata da un'altra Nobel per la Pace: la yemenita Tawakkul Karman, premiata nel 2011, firmataria di un appello alla leader birmana sottoscritto anche da Emma Bonino e Romano Prodi. Quello sollevato da Yunus e Tutu è il grande e irrisolto tema del rapporto tra valori e potere, tra denuncia e governo, tra testimonianza e assunzione di responsabilità alle massime cariche politiche e istituzionali. Un tema che con Aung San Suu Kyi si coniuga al femminile.

Riflette in proposito Nawal El Saadawi, l'autrice egiziana femminista universalmente più conosciuta e premiata. Medico, psichiatra, già docente alla Duke University, Nawal El Saadawi, 86 anni, è autrice di romanzi, racconti, commedie, memorie, saggi. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo arabo, la scrittrice egiziana, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste. "Alle donne – dice la scrittrice all'HuffPost – viene sempre e comunque chiesto di più: più coraggio, più coerenza, come se ogni volta e in ogni campo dovessimo superare un esame per dimostrarci all'altezza. È la prova a cui oggi Aung San Suu Kyi è di nuovo chiamata. Stavolta, va aggiunto, con qualche fondata ragione, perché in gioco c'è il rispetto dei diritti, primo fra tutti alla vita, di migliaia di persone. Non intendo ergermi a giudice, non esprimo sentenze. In questa triste vicenda torna prepotentemente il tema del rapporto con il potere, con i compromessi a cui si è disposti a scendere per salvare non un posto di comando ma quello che si ritiene, a torto a ragione, un bene superiore. Di certo – aggiunge El Saadawi – la migliore risposta non è il silenzio né invocare la ragion di Stato. Governare significa sporcarsi le mani ma non la coscienza, e il compromesso non può arrivare al punto di ledere quei valori che hanno guidato la propria esistenza. Il peso del ruolo che ricopre può diventare a un certo punto insopportabile. Allora, se non si ha pienezza dei propri poteri, rinunciare a un potere dimezzato non è una fuga ma un atto di coraggio. Ecco, è questo che mi sentirei di dire oggi ad Aung San Suu Kyi".

Alla presidente birmana si appella anche il numero uno dei buddismo tibetano e Premio Nobel per la Pace 1989, il Dalai Lama, chiedendo a lei - buddista, ma appartenente a un'altra corrente - di trovare una soluzione pacifica alla crisi in Myanmar che ha portato 300mila musulmani Rohingya a fuggire dal Paese. "Mi appello a te e agli altri leader di raggiungere tutte le sezioni della società per tentare di ristorare relazioni amichevoli tra la popolazione in uno spirito di pace e riconciliazione", ha affermato il capo spirituale in esilio del Tibet in una lettera ad Aung San Suu Kyi. Parlando coi giornalisti, il Dalai Lama ha inoltre richiamato la figura del Buddha, "Le persone che minacciano i musulmani, dovrebbero ricordare il Buddha", ha detto il religioso. "Lui – ha continuato – avrebbe dato aiuto a quei poveri musulmani. Io lo sento. Sono molto triste".

Tristezza. È questo, in fondo, il filo che lega le considerazioni, anche le più severe, fin qui registrate. Tristezza e volontà di capire cosa spinge una donna coraggiosa al silenzio e alla difesa di qualcosa che appare indifendibile. Il potere ancora forte dei militari, la forzatura manipolatrice di una stampa che vede persecuzioni dove non esistono, si affrettano a spiegare i difensori di Aung. Troppo poco, troppo debole, anche per chi vive una realtà di frontiera, tutt'altro che pacificata, qual è ancora oggi Myanmar.

Una riflessione, da donna a donna, viene da un altro Paese di frontiera: Israele. "Vivo in un Paese da sempre in trincea – dice ad HuffPost Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare, paladina dei diritti delle donne israeliane – e a volte, forse troppo, si sono giustificate azioni repressive in nome dell'interesse nazionale, tirando in ballo anche la ferita più lancinante nella storia del popolo ebraico: la Shoah. E so bene, per averlo vissuto di persona – aggiunge la figlia dell'eroe della Guerra dei Sei giorni. Il generale Moshe Dayan – quanto pesino decisioni che non sono in sintonia con i principi in cui si crede. So il dolore che si prova quando si è costretti a scendere a patti con la propria coscienza. Ma è proprio qui – conclude Yael Dayan – che si misura la statura di un leader, nella capacità di non tradire l'ideale di giustizia per il quale si è combattuto per una vita. Spero che Aung San Suu Kyi superi anche questa prova, forse la più difficile nella sua sofferta vita".

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