Islam e donne, la sfida dei diritti contro discriminazione - Politica
"Se le donne nell'islam possono avere gli stessi diritti, perché ci sono così tante minacce di odio contro di me? Perché devo girare con le guardie del corpo?". Due donne, entrambe provenienti dal mondo musulmano e residenti in Europa da tanti anni, portano la loro visione opposta sui problemi della discriminazione femminile al Parlamento europeo a Bruxelles.
L'occasione è il convegno "Islam e donne".
La prima è Imen Ben Mohamed. Parlamentare tunisina, risiede in Italia da quando aveva 15 anni. Si è laureata all'università La Sapienza in Cooperazione internazionale. Indossa il velo. La seconda è Seyran Ates. Attivista femminista, è nata in Turchia da una famiglia di origine curda, e quando aveva sei anni si è trasferita con i genitori in Germania. Ha studiato legge e difende le donne vittime di violenza. A giugno di quest'anno ha aperto quella che definisce una "moschea liberale" a Berlino, dove uomini e donne pregano insieme, sono ammessi gli omosessuali, è vietato il burqa. Per questa iniziativa ha ricevuto molte minacce. "Un gruppo di uomini - racconta - mi ha avvicinato per strada e mi ha detto: Tu hai fatto aprire quella moschea, per questo morirai". La vicenda ha attirato l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica e le è stata assegnata la scorta. "Molti mi minacciano di stupro, oltre che di morte". Il radicalismo, denuncia l'avvocatessa, è spesso finanziato dall'estero ed è una piaga da combattere.
Non ci sta a questa immagine dell'islam Ben Mohamed. "Il primo parametro non è la religione in sé ma il livello democratico, a prescindere dal fatto che il Paese sia musulmano o meno", sottolinea. "Dove non c'è democrazia non c'è rispetto dei diritti umani, e quindi neanche dei diritti delle donne.
Dove c'è uno scarso livello di istruzione, spesso le vittime non sanno neanche di essere vittime. E poi c'è la situazione economica: bisogna combattere il divario di salario tra uomo e donna, garantire l'accesso al lavoro per le donne".
"Proprio per questo - spiega - in Tunisia abbiamo recentemente approvato una nuova legge contro la violenza sulle donne, che ne dà una definizione ampia: prende in considerazione quella morale, fisica, politica, psicologica, nei media ed anche economica. Nel provvedimento ci sono misure di formazione sui nuovi reati per le forze dell'ordine e per i giudici".
Secondo Souad Adnan, giovane marocchina consulente della Banca mondiale, la mancanza di parità tra i sessi sul lavoro comporta una perdita secca di reddito del 27% nell'area del Medioriente e del Nord Africa (Mena). Un dato molto più alto che altrove: vale il 19% nell'Asia meridionale, il 14% nell'area America Latina e Caraibi; ma pesa per il 10% anche in Europa.
Nel Mena si registra una partecipazione femminile al lavoro pari al 22%, contro una media mondiale del 50%. Il che nasconde situazioni molto variegate, che vanno dal 14% della Giordania al 53% del Qatar.
Coglie la palla al balzo l'ambasciatore del Qatar all'Ue Abdulrahman Mohammed Al-hulaifi: "Come dimostrano queste statistiche - dice - bisogna distinguere nel mondo arabo. Noi abbiamo fatto molto per la parità. Non potete solo sempre accusarci di alimentare il terrorismo". "Ogni Paese ha le sue colpe - ribatte Ates -. Certo, se non ci fosse la vendita di armi da parte dell'occidente non ci sarebbero tante guerre. Ma anche in Germania ci sono moschee nelle quali vengono presentate idee estremiste finanziate e sostenute anche dal vostro Paese.
Perciò vi chiedo di comunicare con noi. E' nell'interesse della nostra religione e dei nostri Paesi". (ANSAmed).