Violenza sulle donne, la doppia discriminazione delle disabili
Il 25 novembre, nella Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, ci prendiamo, donne e uomini, un po' di tempo, per vedere «come siamo messi, ma, soprattutto, messe» non solo sul fronte della lotta ai soprusi fisici e psicologici, ma anche su quello, più generale, della discriminazione contro il genere femminile, disabile e non, nei diversi ambiti di vita.
VIOLENZA SUL 21% DELLE DISABILI. I dati Istat sulla violenza di genere sono allarmanti: 4 donne su 10 ne sono vittime, in una qualche forma. Questo dato è davvero molto preoccupante, tanto più che si riferisce a un Paese, l'Italia, appartenente all'Occidente del mondo, laico, progressista e democratico. Tra le vittime della violenza maschile le donne con disabilità, in percentuale, sono le più colpite: si tratta infatti del 21% contro circa il 14% delle altre.
MANIFESTO PER L'INCLUSIONE. Il dato si riferisce sia alla disabilità fisica e sensoriale sia ai deficit intellettivi: la presenza di una disabilità rende la donna ancora più vulnerabile in quanto maggiormente in difficoltà a difendersi. Il Secondo manifesto sui diritti delle donne e delle ragazze con disabilità nell'Unione europea è uno strumento adottato dal Forum europeo sula disabilità, una Ong indipendente che rappresenta gli interessi dei circa 80 milioni di cittadini europei con disabilità. Il documento è diviso in 18 aree tematiche che contengono indicazioni sulle modalità operative più utili a promuovere una cultura e delle prassi operative a favore dell'inclusione e della parità di genere delle donne disabili.
A proposito della violenza contro le donne, si legge: «La violenza contro le donne è una forma di discriminazione e una violazione dei loro diritti umani. [...]». Nel Manifesto il focus rimane la difesa delle donne con disabilità, infatti si dichiara: «È stato riconosciuto che le ragazze e le donne con disabilità possono sperimentare particolari forme di violenza nelle loro abitazioni e nelle sedi istituzionali, queste sono perpetrate da membri della famiglia, da assistenti personali o da sconosciuti. Devono essere prese misure adeguate per prevenire tutti i tipi di sfruttamento, violenza e abusi contro le ragazze e le donne con disabilità, nel contempo si devono garantire un’assistenza adeguata e un supporto che tengano conto delle loro esigenze specifiche».
SOPRUSI IN MOLTEPLICI AREE. Nonostante queste indicazioni lascerebbero ben sperare in una lotta feroce contro ogni forma di oppressione femminile, i dati sopracitati dimostrano come purtroppo siamo ben lungi dal poter decretare la loro fine. Ma i soprusi ai danni delle donne, con o senza disabilità, non rientrano unicamente nell'ambito della violenza di genere, bensì interessano molteplici aree.
DIRITTI MANCATI SUL LAVORO. Per quanto riguarda il diritto al lavoro, citando l'art. 27 della Convenzione Onu, il Manifesto riconosce «il diritto delle donne con disabilità di mantenersi attraverso un lavoro liberamente scelto o accettato in un mercato del lavoro e in un ambiente di lavoro aperto, inclusivo e accessibile alle persone con disabilità».
Ribadisce inoltre la necessità di sviluppare azioni «mirate alle donne con disabilità, per promuovere la formazione, l’inserimento lavorativo, l'accesso al lavoro, il mantenimento del posto di lavoro, la parità di retribuzione a parità di lavoro, gli adattamenti sul posto di lavoro, e l’equilibrio tra lavoro e vita privata».
GENDER GAP OCCUPAZIONALE. Nonostante queste dichiarazioni d'intenti, se confrontiamo, per esempio, i dati dell'occupazione maschile e femminile, ci accorgiamo di quanto il cammino per l'eliminazione delle differenze di genere in Italia, anche riferendoci a persone “normodotate”, sia una strada ancora tutta in salita: nel mese di gennaio del 2017 il tasso di occupazione maschile nella fascia d'età compresa tra i 15 e i 64 anni era pari al 67%, mentre quello femminile raggiungeva il 48,1%. (Istat, Occupati e disoccupati, 2 marzo 2017)
L'80% SENZA UN POSTO. La percentuale di persone con disabilità che lavora già la sappiamo, ma è bene ricordarcela: si tratta del 19,7%, contro circa l'80% di disoccupati. Ciò che ci manca è analizzare questo fenomeno in una prospettiva di genere. L'Istat rivela che, tra coloro che hanno limitazioni funzionali, invalidità o cronicità gravi, risulta occupato il 52,5% degli uomini (64,6% sulla popolazione totale) contro il 35,1% delle donne (45,8% dell'intera popolazione).
La fascia d'età che risente maggiormente della discriminazione è quella tra i 45 e i 64 anni, dal momento che solo il 31,3% è occupata professionalmente. Anche per le donne con disabilità è molto alta la percentuale di “altri inattivi” in cui rientra il ruolo di casalinga (36,3%), mentre per gli uomini è solo del 5,3%, proprio come nella popolazione generale. Il gender gap occupazionale tra donne e uomini disabili è 17,4% a sfavore delle prime (Informare un'H). Anche in questo settore, quindi, la variabile “genere femminile” si interseca con la variabile “disabilità” generando il costituirsi di una doppia discriminazione.
SALUTE NON DEL TUTTO GARANTITA. Quando c'è la salute, c'è tutto, dice un famoso proverbio. E in effetti l'articolo 25 della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità esplicita: «Gli Stati parti riconoscono che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del migliore stato di salute possibile, senza discriminazioni fondate sulla disabilità. Gli Stati parti adottano tutte le misure adeguate a garantire loro l’accesso a servizi sanitari che tengano conto delle specifiche differenze di genere, inclusi i servizi di riabilitazione».
In particolare, gli Stati Parti devono «(a) fornire alle persone con disabilità servizi sanitari gratuiti o a costi accessibili, che coprano la stessa varietà e che siano della stessa qualità dei servizi e programmi sanitari forniti alle altre persone, compresi i servizi sanitari nella sfera della salute sessuale e riproduttiva e i programmi di salute pubblica destinati alla popolazione [ ]».
L'ACCESSO AI SERVIZI VA GARANTITO. Anche nel Secondomanifesto sui diritti delle donne e delle ragazze con disabilità nell'Unione europea, viene sancito il loro «diritto al godimento del massimo livello conseguibile di salute. A questo proposito, devono essere adottate misure per garantire che esse abbiano accesso ai servizi sanitari che prendano in considerazione il genere e la disabilità, tra i quali la riabilitazione sanitaria».
SITUAZIONE NON AFFRONTATA. A questo proposito, il testo prosegue dichiarando: «L'Unione europea ha riconosciuto che il genere è una determinante importante nell’accesso alla salute e provoca disuguaglianze nell'accesso all'assistenza e al trattamento sanitari tra uomini e donne. Nonostante ciò, fino a oggi non c’è stata alcuna attenzione specifica ai gruppi esposti a maggiore rischio di esclusione come conseguenza dell'intersezione del genere con altri fattori discriminanti, come la disabilità. Di conseguenza, la situazione specifica in cui si trovano le donne e le ragazze con disabilità non è stata adeguatamente affrontata».
I due documenti pongono l'attenzione sul diritto all'accessibilità ai servizi sanitari, ma purtroppo a queste parole non corrispondono quasi mai fatti concreti. Lo dimostra l'indagine del Coordinamento del Gruppo Donne Uildm, condotta nel 2013 e intitolata “L'accessibilità dei servizi di ginecologica e ostetricia alle donne con disabilità”, allo scopo di scoprire le principali difficoltà incontrate dalle donne con disabilità nell'accesso a questo tipo di strutture. Il campione era composto da 61 strutture ed enti sanitari pubblici appartenenti a regioni di tutta Italia e la ricerca è stata condotta in collaborazione con due docenti di Ginecologia e Ostetricia, rispettivamente dell'Università La Sapienza di Roma e dell'Università di Torino (superando.it).
MANCANO BAGNI ADEGUATI. Attraverso un questionario sono stati indagati elementi come, per esempio, l'accessibilità dei bagni, della reception, la presenza di un Centro unico di prenotazioni, eccetera. Impressionante è rilevare che 26 strutture sanitarie, il 42,62% del campione, non dispongono di un bagno accessibile, 32 edifici sanitari (52,46%) hanno una reception ma in 7 casi è stata segnalata la presenza di ostacoli lungo il percorso per raggiungerla e in altrettanti risulta impossibile avvicinarsi al banco informazioni se si usa una sedia a rotelle.
Per non parlare dell'assoluta mancanza di ausili e attrezzature adeguate per facilitare l'accesso a visite ed esami: altrove ho raccontato che, in occasione dello screening citologico per la prevenzione del tumore al collo dell'utero, se non mi fossi fatta accompagnare da un'amica che mi ha aiutata a salire sul lettino, non avrei potuto essere sottoposta agli esami perché la struttura non era dotata degli ausili necessari.
DISCRIMINAZIONE DAL PERSONALE. Da ultimo, ma non per questo meno importante, anzi, accenniamo all'estrema necessità e urgenza di interventi volti a contrastare comportamenti e atteggiamenti discriminatori e tipizzanti da parte del personale sanitario nei confronti delle persone con disabilità, soprattutto se donne. Ricordo ancora l'incredulità della ginecologa da cui sono stata per lo screening di fronte al fatto che avessi avuto rapporti sessuali completi.
In questo periodo sono in cura in un famosissimo ospedale di cui non faccio il nome (sono ancora nelle loro mani, quindi, non si sa mai) e, ahimè, ho toccato con mano la totale mancanza di competenza nell'individuare strategie di cura efficaci ed efficienti per gestire certi aspetti della mia disabilità motoria che risultavano critici ai fini della mia guarigione.
SOLO BUFFETTI DAL PRIMARIO... Sono stata io a capire cosa sarebbe stato utile fare affinché la mia cicatrice si rimarginasse. Non l'avessi capito e fatto, le conseguenze sarebbero state non certo letali ma senza dubbio nefaste per la percezione della mia femminilità. E, oltre il danno la beffa, a ogni visita di controllo vengo chiamata “tesoro” dalle chirurghe, mie coetanee (!), e ricevo simpatici buffetti dal primario del reparto, primo responsabile della totale impreparazione dell'equipe medica nella gestione della mia situazione.
RIMBOCCHIAMOCI LE MANICHE. Leggendo quindi le indicazioni del Manifesto - «Dovrebbero essere adottate misure atte a garantire che i professionisti che operano in ambito sanitario ricevano un’adeguata formazione per assistere le donne e le ragazze con disabilità[...]» - penso che il lavoro da fare sia ancora molto, in ambito sanitario ma anche su tutti gli altri fronti. E allora, donne e uomini, disabili e non, rimbocchiamoci le maniche!