Pamplona, il processo per stupro al "Branco" che scuote la Spagna
È il luglio 2016 quando i cinque amici – tutti tra i 20 e i 30 anni – partono per Pamplona per assistere al celebre festival di San Fermín. Tra loro anche un agente della Guardia Civil. Prima del viaggio i ragazzi, secondo le prove raccolte dagli inquirenti ma non ammesse a dibattimento, scambia dei messaggi con altri amici, cui dicono di voler procurarsi delle “droghe dello stupro” per poter violentare “tutto quello che vedono” una volta arrivati.
Nel rapporto redatto dalla polizia si legge che la donna manteneva un comportamento “passivo o neutrale” mentre veniva sovrastata dai cinque. In aula il difensore Agustín Martínez Becerra riporta le parole della 18enne: “Non ho parlato, ero a occhi chiusi, sottomessa e non ho fatto nulla (...) Non ho parlato, non ho urlato”. Non solo non ha fatto nulla per farlo apparire come un rifiuto, ma hanno capito che voleva avere rapporti, ha riassunto la difesa, proseguendo nella sua arringa: “Se vi circondano cinque uomini in un vicolo cieco e vi chiedono cellulare e portafogli, e voi glielo consegnate senza dire nulla, potete denunciarli per furto?”.
Per gli inquirenti il comportamento della 18enne altro non è che un segno del suo stato di shock, per la difesa una dimostrazione del suo “consenso”, che ha cercato di provare mostrando parti del video incriminato. Quel filmato girato dal branco mentre i fatti avvenivano, con la promessa di condividerlo con gli amici su WhatsApp. Un video passato in rassegna, frame per frame, dai giudici.
Quello che per la difesa è “un film porno” girato da giovani che “potrebbero essere veri imbecilli” ma in fondo sono “bravi ragazzi”, per la procuratrice Elena Sarasate è la prova di una “situazione di schiacciante superiorità fisica” nella quale per la vittima è stato “impossibile opporsi alle spregevoli intenzioni degli aggressori”, quel branco che le avrebbe sottratto il cellulare per impedirle di allertare la polizia. E che ora, in custodia cautelare da settembre, rischia fino a 25 anni di carcere. Il caso esplode e fa discutere l’intera Spagna: i media partecipano al dibattito, indicono sondaggi su Twitter in cui chiedono al pubblico se la presunta vittima dica o meno la verità. In piazza, a sostegno della ragazza, scendono intanto le organizzazioni per i diritti delle donne, che contestano con forza un report presentato in tribunale dalla difesa, poi ritirato: un resoconto dei comportamenti tenuti dalla 18enne dopo gli avvenimenti di quel 7 luglio, frutto del lavoro di un detective privato assoldato da uno degli accusati per monitorare la giovane madrilena, online e offline, e dimostrare come avesse ripreso una vita normale, tra vacanze con gli amici e attività sui social.
“We believe you” dicono le donne che sui social lanciano la campagna sostegno della ragazza. Per El Paìs, il processo segna “un momento di svolta nella percezione pubblica dei casi di violenza sessuale e nel trattamento delle vittime di stupro in Spagna”. Mentre Amalia Fernández, presidente dell’organizzazione Themis, solleva il tema scottante della “doppia vittimizzazione” di chi subisce violenza: “Viviamo in una società con comportamenti patriarcali. I tribunali riflettono una società che porta alla doppia vittimizzazione come in questo caso" E, come accade fin troppo spesso "nei crimini contro le donne, la vittima si trasforma in sospetto, qualcosa che non avviene mai in altri processi”.