«In politica per salvare le donne afghane»
In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne 2017, è stata presentata a Milano «Exit from violence. You are not alone», una guida illustrata per aiutare le donne afghane a riconoscere una violenza e denunciarla realizzata da COSPE onlus e l’azienda di ristorazione italiana CAMST. Tra i relatori dell’evento, che si è svolto alla Casa delle donne di Milano, l’attivista politica afghana Selay Ghaffar, icona del movimento democratico e femminista in Afghanistan. A lungo presidente dell’associazione partner di COSPE, Hawca (Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan) da qualche anno Selay è la portavoce del partito politico di opposizione: Partito della Solidarietà afghano, Hambastagi. Selay Ghaffar, in Italia grazie all’associazione Cisda sta facendo un lungo tour per rincontrare partner e creare reti politiche di sostegno oltre che per raccontare l’attuale situazione afghana. Di seguito l’intervista, realizzata in occasione dell’evento da Viviana Mazza, giornalista del Corriere della Sera.
Dato l’evento in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, la prima domanda che mi verrebbe da farle è se e in che modo questa giornata è celebrata in Afghanistan? «La giornata contro la violenza sulle donne è riconosciuta e celebrata nel nostro Paese, ma spesso non per una buona causa: molte delle associazioni che ad oggi lavorano sulla tematica, non lo fanno perché credono in valori come l’equità di genere o riconoscono i diritti delle donne, ma al contrario perché ci vedono un’opportunità di ricevere fondi. E’ così che la giornata internazionale contro la violenza delle donne è diventata un business. Lo stesso accade per la giornata dell’8 Marzo. Né il 25 novembre, né l’8 marzo in definitiva raccontano le motivazioni che hanno portato a celebrare queste giornate. La società civile è ancora poco educata sul tema, ma ciò non significa che non ci siano stati e non ci siano tuttora esempi di donne che lottano per i propri diritti, e che un cambiamento non sia possibile».
Qual è oggi la condizione della donna in Afghanistan?«La violenza contro le donne è un fenomeno mondiale e secondo le Nazioni Unite, un terzo delle donne nel mondo subisce diversi tipi di violenza (sessuale, fisica, psicologica) da un uomo di famiglia. In Afghanistan la situazione è particolarmente grave. I continui episodi di violenza contro le donne, di minacce, assalti, omicidi e centinaia di altre brutalità di questo genere hanno trasformato il paese in un carcere a cielo aperto per le donne. Per fare solo qualche esempio, l’agenzia di stampa Reuters ha dichiarato l’Afghanistan il paese più pericoloso dove vivere in quanto donne. «The Global rights», ha riportato che 87.2 donne in Afghanistan sono state vittima di almeno un episodio di violenza domestica. «The World Statistics» nel 2015 riportava l’Afghanistan come il secondo paese con il più alto rischio di violenza domestica al mondo. Nel 2016, si è calcolato che 8 donne su 10 hanno subito violenza. La questione della violenza in Afghanistan è strettamente legata al limitato accesso delle donne alla scuola. Nel 2017, infatti, l’Afghanistan è stato definito il quarto Paese peggiore al mondo per livello di alfabetizzazione femminile. «Human Rights Watch», ha dichiarato che due terzi delle donne non vanno a scuola. Il dislivello di educazione, congiunto con la diffusa cultura di violenza contro le donne, rendono praticamente impossibile una parità di genere. Quest’anno, infatti, nell’indice di disparità di genere mondiale, l’Afghanistan risulta 152° su 155 paesi al mondo».
Lei ha prima ha lavorato con la società civile, in organizzazioni non governative, e solo dopo è passata alla politica. Come mai questa scelta? Ci racconti qualcosa di più della sua esperienza.«E’ vero che per un primo periodo ho lavorato con la società civile, in organizzazioni non governative. Inizialmente pensavo che lavorare a livello sociale fosse il modo migliore per risolvere il problema e sensibilizzare al tema. Mi sono però accorta nel tempo, che una delle cause primarie della violenza contro le donne è la politica stessa. Se si vuole un cambiamento radicale, è necessario cambiare la politica e creare coscienza. Per questo ho deciso di entrare in politica: per battermi in prima fila per il mio Paese. Non possiamo aspettare l’aiuto di Paesi internazionali e sperare che siano loro a cambiare la nostra condizione sociale. Nessun Paese straniero potrà darci i nostri diritti, ma siamo noi che dobbiamo batterci perché avvenga un cambiamento dall’interno. Per raggiungere un’equità di genere è necessario un cambiamento politico, e perché tutto ciò possa avvenire è necessario che uomini e donne lottino insieme. Con questo, non voglio dire che il lavoro della società civile e delle organizzazioni non governative non serva. Il problema, però, è che spesso i progetti mandati avanti sono a breve termine e rischiano quindi di migliorare la situazione solo temporaneamente. Quello di cui, invece, l’Afghanistan ha bisogno è un cambiamento radicale e duraturo, che può avvenire solo in ambito politico».
Qual è la sua opinione circa la presenza straniera in Afghanistan? Vi sarebbero dei cambiamenti in meglio o peggio se le forze armate si ritirassero?«Sono 16 anni che Stati Uniti e Nato hanno occupato l’Afghanistan, rendendo il nostro Paese il centro della guerra. Se mai gli Stati Uniti si trovassero a confrontarsi con nemici come la Russia, la Cina, lo farebbero nella nostra terra, distruggendo tutto quello che abbiamo. Senza la presenza degli Stati Uniti, l’Afghanistan non sarebbe più l’obiettivo di gruppi terroristici, Paesi stranieri e forze armate; ma verrebbe lasciato a se stesso e dovrebbe preoccuparsi di battersi contro un solo nemico, non molteplici come oggi. Lei mi chiede se voglio che gli Stati Uniti e le truppe straniere si ritirino, io le rispondo che tutti i cittadini afghani vorrebbero che le forze statunitensi se ne vadano il prima possibile. Questo non solo permetterebbe all’Afghanistan di occuparsi delle proprie problematiche interne e della propria politica senza essere il mirino di forze esterne, ma smetterebbe inoltre di essere il luogo dove testare armi nucleari e non nucleari. Così come potrebbe diminuire, se non arrestarsi, il traffico e produzione di oppio che è stata alimentata dagli stranieri e che ha reso molti giovani e donne tossico-dipendenti».
Vuole mandare un messaggio alle persone che sta incontrando durante questi incontri in Italia? «Si, vorrei dire che noi del movimento crediamo profondamente nella solidarietà che popolazioni straniere, in particolare di Paesi democratici, possono darci. Chiedo che gli italiani facciano la loro parte supportando il movimento di resistenza in Afghanistan e facendo pressione sul loro governo italiano perché smetta di supportare l’intervento militare in Afghanistan».
17 dicembre 2017 (modifica il 17 dicembre 2017 | 23:11)
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