Ripensare l’eguaglianza: da Olympe de Gouges a Rosa Bonheur - micromega-online
Olympe de Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, Il Nuovo Melangolo, Genova 2007
Rosa Bonheur, Ceci est mon testament…, Éditions iXe, Ain 2012.
«Da qui la necessità di muoversi verso una concezione dell’eguaglianza fondata, questa volta, sul riconoscimento pieno delle identità diverse, fondamento del diritto alla identità e alla differenza»[2]. Stefano Rodotà
Nel 1791 Marie-Olympe Gouze, detta Olympe de Gouges, pubblica la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne. Olympe vive tra il 1748 e il 1793, in piena Rivoluzione francese, di cui è attiva protagonista. Figlia illegittima di un poeta, padrino della madre, dopo la nascita del primo figlio e la morte del marito si trasferisce da Montauban a Parigi, dove prende parte ai salotti intellettuali dell’epoca, avvicinandosi ad alcuni esponenti di primo piano dell’Illuminismo francese – tra gli altri, Condorcet e Anne-Catherine Hélvetius – e della politica settecentesca.
I suoi impegni pubblici si sviluppano lungo due direzioni, l’attività letteraria e drammaturgica e la passione politica, che finiscono per intrecciarsi dando luogo a un teatro politico e a una letteratura “impegnata” di spirito umanista. In particolare, le sue pièces teatrali hanno come oggetto privilegiato la critica, a dir poco impopolare nella Francia dell’Ancien Régime, nei confronti della schiavitù dei neri nelle colonie francesi. La pubblicazione de L’esclavage des noirs, ou l’heureux naufrage (1785) le vale diverse minacce di morte e pressioni da parte dei proprietari di schiavi e dei membri della corte reale che traggono ingenti profitti dalla produzione coloniale[3] e il rischio di essere incarcerata alla Bastiglia. Con le opere Réflexions sur les hommes nègres e Marché des Noirs, successive alla Rivoluzione (che abolisce la servitù senza indennità, ma non la schiavitù e la tratta dei neri), Olympe, sostenuta dalla Société des amis des Noirs, continua a impegnarsi per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione della schiavitù.
Inoltre, durante il periodo rivoluzionario, elabora numerosi pamphlets politici di stampo patriottico, indirizzati ai rappresentanti del governo, da cui emerge un chiaro intento riformatore in ambito sociale (dalla creazione di un sistema di luoghi di assistenza per la maternità e l’infanzia, all’attenzione nei confronti della povertà attraverso strumenti di welfare che fronteggino la disoccupazione e garantiscano soluzioni abitative ai disagiati). De Gouges, vicina al gruppo dei Girondini e portavoce di posizioni repubblicane e federaliste, si schiera contro la condanna a morte di Luigi XVI, convinta dell’idea che «il sangue, anche quello dei colpevoli, versato con crudeltà e in abbondanza, insudicia eternamente le Rivoluzioni»[4]. Questa scelta, insieme all’opposizione alle aspirazioni dispotiche di Robespierre – “l'opprobre et l'exécration de la Révolution”[5] –, al clima di violenze ispirato da Marat – “avorton de l’humanité”[6] –, all’accrescersi del potere della dittatura dei Montagnardi e, più in generale, al regime del Terrore[7], le costa l’arresto. Dopo un interrogatorio sommario e senza avvocati, Olympe viene condannata a morte dal tribunale rivoluzionario dal momento che “si era dimenticata delle virtù che convengono al suo sesso”. Il 3 novembre 1793 muore ghigliottinata, vittima di quello stesso processo rivoluzionario che l’ha vista protagonista.
Considerata dai contemporanei e per buona parte del centennio successivo una sorta di “cortigiana”, a causa delle sue rivendicazioni in termini di libertà femminile e della sua partecipazione attiva alla vita pubblica, riservata esclusivamente agli uomini per molti secoli, e vittima delle critiche misogine di chi la ritiene in realtà un’illetterata che affida a terzi il compito di redigere i propri scritti, Olympe viene riscoperta negli ultimi decenni, in particolare negli anni Novanta, in occasione del bicentenario della Rivoluzione[8]. Ma molti elementi presenti nella sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina sono ripresi e rielaborati già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento dal così detto “primo femminismo” o femminismo liberale che, accanto al diritto di voto – condizione necessaria ma non sufficiente per una piena cittadinanza delle donne – rivendica tutta una serie di diritti politici, civili e sociali.
È proprio la Dichiarazione a costituire un testo chiave nella problematizzazione di uno dei dilemmi fondamentali delle democrazie liberali moderne, ovvero il rapporto tra l’uguaglianza e l’universalità dei diritti e dei valori e la conservazione e legittimazione delle differenze fra individui e gruppi sociali. Il fil rouge della riflessione di De Gouges è rappresentato proprio dall’esigenza di ripensare il concetto stesso di eguaglianza al fine di renderlo compatibile, in un’ottica antiriduzionistica, con il mantenimento e la difesa delle differenze. Olympe ritiene che la coppia concettuale eguaglianza-differenza non costituisca un’alternativa: si tratta di una falsa scelta, dal momento che il riferimento all’eguaglianza ha senso soltanto laddove si tenga conto delle differenze fra gli esseri umani. In questa prospettiva il riconoscimento reciproco e l’integrazione non devono consistere nella semplice e insoddisfacente assimilazione delle identità singolari al modello prevalente e la tolleranza deve lasciare il posto all’inclusione: le specificità, lungi dal dover essere annullate o appiattite in un’ottica di omologazione, sulla base di quello che Todorov chiama “universalismo etnocentrico”[9], vanno, invece, conservate gelosamente e pienamente in quanto elemento di arricchimento in un sistema autenticamente pluralista. Olympe sembra anticipare sorprendentemente la consapevolezza che il modello americano del melting pot, in cui gli individui finiscono per perdere la propria specificità, fondendosi al sistema dominante fino a diventarne indistinguibili, vada sostituito con una concezione dell’eguaglianza dove la mescolanza e l’identificazione di un apparato di valori comuni non faccia venir meno le singolarità individuali[10].
Non solo. Olympe nega con forza la separazione, materialmente impossibile, tra sfera pubblica e sfera privata, rifiutando di relegare il diritto alla differenza all’ambito privato. De Gouges si mostra convinta del fatto che l’eguaglianza non possa che essere il risultato di un confronto, inevitabilmente non privo di momenti di conflittualità, che porti al riconoscimento delle ragioni delle minoranze (i suoi principali rifermenti sono le donne, i neri e i poveri), non in una prospettiva di separazione, ma di integrazione, attraverso la definizione di regole e criteri di conciliabilità. Tale confronto si deve muovere lungo due direzioni: da una parte, deve riflettere criticamente e mettere in discussione l’esistenza di una cultura dominante patriarcale e aristocratica predefinita e da accettare passivamente; dall’altra deve mostrare la positività dell’incontro di valori e identità di riferimento diversi all’interno della dimensione pubblica.
La Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina del 1791, documento di rilievo per la storia del diritto francese, è ricalcata sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 della quale conserva la struttura e, sostanzialmente, il contenuto. A cambiare sono i soggetti: non più l’uomo, ma la donna e l’uomo. Olympe disvela il falso universale insito nella Dichiarazione dell’‘89: in quel caso l’utilizzo del termine “uomo”, di per sé neutro e inclusivo rispetto a entrambi i sessi, di fatto viene interpretato dalla giurisdizione del tempo in senso esclusivo (le donne risultano escluse). Si tratta di un universalismo che si infrange nell’incontro con il “diverso”, incapace di accogliere le naturali differenze, attraverso il riconoscimento della pluralità dei soggetti. De Gouges si pone quindi l’obiettivo di ripensare l’eguaglianza, individuando un universale che includa pienamente tutti gli esseri umani, uomini e donne (non “solo” o “anche” le donne!).
La Dichiarazione, esplicitamente indirizzata alla regina Maria Antonietta – alla quale Olympe si rivolge in tono informale e con l’appellativo “Madame” – inizia con la dimostrazione del carattere non naturale della differenza tra uomo e donna: si tratta di un prodotto storico e sociale, artificiale, frutto di pregiudizi e di forme di oppressione. Questo spiega il richiamo continuo, nei diciassette articoli e nel preambolo, alle leggi di natura – elemento tratto dalle riflessioni del giusnaturalismo moderno – e di ragione, in contrapposizione alle leggi attuali risultato della sopraffazione e dell’impostura: secondo De Gouges, in natura, nel mondo animale e vegetale, maschio e femmina collaborano armoniosamente e senza distinzioni[11].
Olympe costruisce la sua Dichiarazione in opposizione al così detto dilemma della “contraddizione di Condorcet”[12]. Nel periodo rivoluzionario anche chi, come Condorcet, si impegna attivamente in favore dei diritti delle donne, tuttavia continua a considerare la natura femminile essenzialmente non politica, finendo per trascurare la questione della piena cittadinanza delle donne. Il dilemma vede un’antitesi di carattere dicotomico tra la natura maschile – vista come sociale e politica – e la natura femminile – relegata alla sfera familiare e privata. L’incompatibilità tra sfera pubblica, come luogo del potere, e sfera famigliare, come luogo della cura, implica che le donne, proprio in quanto madri e mogli, non possano essere cittadine a tutti gli effetti e risultino quindi discriminate nei confronti degli uomini: «Quando il padre di famiglia è uscito per andare a difendere o a reclamare nell’assemblea del comune i diritti di proprietà, di sicurezza, di eguaglianza, di libertà, la madre di famiglia, concentrata sui suoi doveri domestici, deve farvi regnare l’ordine e la pulizia, il benessere e la pace»[13].
Olympe vuole ripensare il carattere individualistico della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Quest’ultima, rivendicando esclusivamente i diritti degli individui (o meglio, di alcuni individui), finisce per determinare una priorità del piano individuale su quello sociale, sottraendo la famiglia allo spazio pubblico e politico e sottomettendo le donne alla giurisdizione del marito[14].
De Gouges reclama i diritti politici, civili e sociali delle donne: l’accesso alle cariche pubbliche in base a criteri meritocratici; la libertà di pensiero e di opinione (in particolare il diritto di rivelare ai figli nati fuori dal matrimonio l’identità del padre e l’obbligo di riconoscimento dei figli “illegittimi”); il diritto alla propria persona e all’autodeterminazione sessuale, intesa come condizione necessaria per la dignità (essere trattati come fini in sé e non come mezzi); l’accesso ai dibattiti pubblici; l’istituzione del divorzio e la sostituzione del matrimonio religioso con un contratto sociale e statuale (non privato) tra concubini; e un sistema di educazione nazionale.
Olympe, come messo in luce dalla studiosa Ute Gerhard[15], propone una concezione radicale dell’eguaglianza, insistendo sull’applicazione eguale del diritto penale nei confronti di uomini e donne e rifiutando nettamente la rivendicazione di “diritti speciali” per la donna e forme di “discriminazione alla rovescia”. De Gouges in questo ambito ha in mente il riferimento, proprio del diritto romano e di quello francese, all’“imbecillitas sexus”, ovvero alla possibilità di una minore imputabilità delle donne, prevista in alcuni procedimenti giuridici.
È l’articolo X, diventato ormai celebre, che esprime in tutta la sua forza l’idea di eguaglianza elaborata da Olympe, anticipando drammaticamente il destino a cui andrà incontro: «Se la donna ha il diritto di salire sul patibolo; ella dovrà avere egualmente quello di salire sulla tribuna». La Dichiarazione mira a un’eguaglianza prescrittiva (in termini di “dover essere”), ovvero afferma che tutti gli individui, in quanto esseri umani, debbano avere titolo, in virtù di una norma condivisa, allo stesso trattamento. In tal senso uomini e donne non vengono considerati eguali, ma si ritiene che debbano essere detentori dei medesimi diritti: si riconosce l’eguaglianza, intesa appunto come godimento degli stessi diritti universali, nella differenza. In questo modo la specificità tra esseri umani diversi che si conserva, in quanto valore aggiunto, è di tipo non gerarchico, non implica cioè una relazione asimmetrica e di inferiorità tra uomo e donna.
Proprio come il testo di Olympe de Gouges, anche il Testamento di Rosa Bonheur permette di riflettere su quello che la studiosa inglese Carol Pateman ha definito il “dilemma di Wollstonecraft” (riferendosi alla filosofa del Settecento inglese, autrice in particolare della Vindication of the Rights of Woman, manifesto del femminismo ottocentesco). Tale dilemma, impellente tuttora nelle democrazie liberali contemporanee, nasce dalle difficoltà insite nella necessità di rivendicare sia, da una parte, l’eguaglianza dei diritti universali, sia, dall’altra, il mantenimento di una differenza non gerarchica tra uomini e donne. Le donne, afferma Pateman, «da un lato hanno chiesto che l'ideale della cittadinanza fosse esteso anche a loro, [...] dall'altro lato hanno anche insistito, spesso contemporaneamente, come fece Mary Wollstonecraft, sul fatto che, in quanto donne, hanno particolari capacità, talenti, bisogni e interessi, motivo per cui l'espressione della loro cittadinanza dovrà essere diversa da quella degli uomini […]. L'accezione patriarcale della cittadinanza significa che le due richieste sono incompatibili perché consente solo due alternative: o le donne diventano (come) uomini e quindi cittadini in senso pieno; oppure continuano nel loro lavoro di donne che non ha valore per la cittadinanza. Per di più, all'interno del welfare state patriarcale, nessuna delle due richieste può essere soddisfatta»[16].
Marie-Rosalie Bonheur, detta Rosa Bonheur, vive tra il 1822 e il 1899. Nasce a Bordeaux, si trasferisce con la famiglia a Parigi, è una pittrice, all’epoca molto conosciuta e apprezzata anche al di fuori dell’Europa, che utilizza come soggetto privilegiato delle sue opere gli animali (in particolare vacche e buoi come nel suo quadro Labourage nivernais) e che rifiuta di far propria una specifica corrente artistica.
Alcuni aspetti biografici risultano particolarmente rilevanti. Innanzitutto l’affiliazione del padre – pittore nel cui atelier Rosa si forma - al sansimonismo, un movimento del XIX secolo che, opponendosi all’Ancien Regime, in quanto simbolo di intolleranza, ineguaglianza e dominio dei privilegi, si propone la trasformazione dei rapporti e delle istituzioni sociali e l’instaurazione di una società basata sulla fratellanza, attraverso un processo educativo in cui un ruolo di primo piano è giocato dalla scienza. Il sansimonismo, da cui Rosa è probabilmente influenzata, quanto meno in modo indiretto, ha tra i suoi sostenitori molte femministe ottocentesche che rivendicano l’emancipazione della morale familiare e la libertà sessuale.
In secondo luogo la sensibilità che Rosa mostra nei confronti delle minoranze. Proprio come Olympe fa propria la causa dei neri, Rosa, a proposito degli Indiani d’America, dice: «Sapete, io ho una autentica passione per questa razza sfortunata, e deploro che essa sia destinata a scomparire di fronte ai Bianchi usurpatori»[17]. Il fatto che le donne rivendichino non solo i propri diritti, ma quelli delle minoranze in generale , mostra chiaramente come tra Settecento e Ottocento, nelle riflessioni femminili, l’idea di eguaglianza tra individui si basi sulla comune natura e appartenenza al genere umano (si pensi al fatto che il femminismo liberale è legato in molti casi alla lotta antischiavista). Si tratta, quindi, di un concetto di eguaglianza ampio e astratto, che non prevede esclusioni, né di ordine biologico, né di ordine etnico o di altro tipo e che ha dietro la consapevolezza che la diversità tra gruppi umani e sviluppi storici non implica il venir meno dell’universalità dei diritti fondamentali, ma richiede una sua riformulazione.
Ad interessarci qui non è tanto l’attività artistica di Rosa quanto la sua vita personale e, in particolare, il suo Testamento, che finisce per costituire uno spunto di riflessione nell’ambito della rivendicazione di un’universalità dei diritti che conservi e legittimi il diritto all’identità e alla differenza da parte delle donne e, più in generale, delle minoranze.
Rosa, “garçon en jupon”, conduce una vita all’insegna dell’emancipazione e dell’indipendenza da ogni convenzione e da ogni “etichetta”, non senza attirare su di sé voci e maldicenze. Porta i capelli corti, fuma il sigaro, indossa i pantaloni (proprio come George Sand porta il panciotto!), non con l’intento di assumere un’identità maschile, ma per motivi di praticità e soprattutto come simbolo di libertà (per farlo ogni sei mesi deve rinnovare un “permesso di travestimento” presso la Prefettura di Parigi, giustificato dalla sua attività di pittrice animalière che le impone di andare in visita ai mercati di animali e ai mattatoi). Rifiuta radicalmente il matrimonio, in quanto atto che sancisce la sottomissione della donna all’uomo e la sua perdita di autonomia: «Dopo molto tempo ho capito che, mettendo sulla testa la corona di fiori d’arancio, la giovane donna si sottomette, non è più che il pallido riflesso di ciò che era prima. Diventa per sempre la compagna del capo della comunità, non per eguagliarlo, ma per assisterlo nei suoi impegni; per quanto grande possa essere il suo valore, resterà nell’ombra»[18]. Come sottolinea lei stessa nella lettera che accompagna il Testamento, Rosa è economicamente indipendente, grazie al suo lavoro di pittrice, e si fa carico del sostentamento finanziario della famiglia di origine; ha posizioni radicali per quanto riguarda la questione femminile, sebbene non si unisca alle lotte delle femministe liberali americane; è la prima artista a ricevere il titolo di cavaliere e ufficiale della Legione d’onore. Inoltre, condivide la sua vita con due donne.
Prima si lega a Nathalie Micas, pittrice, inventrice scientifica, interessata alla medicina, alla fotografia e all’educazione. Rosa e Nathalie si conoscono da adolescenti, vivono, lavorano e viaggiano insieme e contribuiscono ad aprire una scuola mista a By, cosa che all’epoca fece scalpore. Si supportano reciprocamente, in particolare dal punto di vista lavorativo: quando Nathalie inventa un sistema di frenaggio per i treni che, seppur funzionante e adottato qualche anno dopo a nome di un inventore inglese, non ottiene il brevetto, Rosa constata amaramente che «poiché il progetto era uscito dal cervello di una donna, gli ingegneri si mostrarono poco disposti ad adottarlo»[19]. Le due donne sono legate profondamente, tanto che Rosa si rivolge così a Nathalia: «Ah! Se tu fossi stata con me, avrei perso la testa di felicità, perché provare un piacere senza di te, non è che gioirne a metà» e ancora «Non ero felice che quando la vedevo accanto a me»[20].
In seguito alla morte di Nathalie, Rosa si avvicina alla pittrice americana Anna Klumpke, più giovane di trentatré anni. La famiglia di Anna rappresenta per Rosa un modello di emancipazione femminile, realizzato attraverso l’educazione e l’istruzione: la madre di Anna, infatti, fa in modo che le figlie studino e riescano a raggiungere l’autonomia, anche professionale ed economica, e un senso di realizzazione personale (Augusta diventa una neurologa di successo ed è la prima donna a superare il concorso interno degli ospedali di Parigi, nonostante l’opposizione di molti medici; Dorothéa studia matematica alla Sorbona ed è la prima astronoma ammessa all’Osservatorio di Parigi e la prima a salire su un pallone aerostatico per osservare le meteore Leonidi; Mathilda è una pianista; Julia una compositrice e violinista). Le due pittrici condividono la quotidianità e l’attività artistica fino alla morte di Rosa. Anna non solo ritrae la compagna, ma ne scrive una biografia che può essere considerata in tutto e per tutto una autobiografia, essendo scritta quando Rosa è ancora in vita e in risposta a un suo desiderio (Rosa, insoddisfatta dalle diverse biografie dedicatele da autori che tralasciano il legame con Nathalie e con la madre di lei, vuole che Anna sia la sua interprete nei confronti della posterità: «Non solo sarete la mia voce, ma anche quella della mia cara Nathalie. Potrete scrivere su di lei ciò che lei stessa non poteva dire si sé, ci completerete entrambe»[21]).
È proprio Anna a essere nominata nel Testamento legatario universale dell’eredità. Questo documento, sigillo giuridico e materiale del profondo legame tra le due donne, rappresenta il punto più alto della volontà di indipendenza e libertà di Rosa, in quanto segna una rottura con la legge patriarcale che non riconosce altri legami al di fuori di quelli familiari. Rosa in tutta lucidità, nella consapevolezza che i suoi beni sono frutto esclusivo e autonomo del suo lavoro, dei suoi sforzi e dell’eredità lasciatale da Nathalie (di cui è unica erede) e convinta di aver aiutato sufficientemente la famiglia d’origine nel corso di tutta la sua vita, a partire dai primi guadagni, si considera del tutto legittimata a disporre liberamente di ciò che le appartiene. La decisione di nominare Anna erede esclusiva (e nel caso di decesso di Anna, la famiglia di quest’ultima) rappresenta per Rosa anche un modo di ricordare Nathalie e la signora Micas, madre di lei, considerate la sua “vera famiglia” (è nella loro tomba che la pittrice vuole essere sepolta e desidera venga sepolta anche Anna: «Così voi mi sarete vicina anche nella tomba […]. So che Nathalie non sarà gelosa. Il suo affetto per me è abbastanza grande per comprendere che in una condivisione di anime la parte di ciascuno è accresciuta dalla felicità dell’altra»[22]).
Nella lettera che accompagna il Testamento, Rosa esplicita le ragioni della sua decisione, profondamente meditata, insiste sul suo buono stato di salute psico-fisica e torna a confermare la totale libertà e assenza di costrizione alla base delle sue ultime volontà. Rosa è ben consapevole dei sospetti e delle calunnie dei malpensanti e della famiglia Bonheur che avrebbero travolto Anna, anche a causa della loro differenza di età: «Chissà se la vostra famiglia non si lascerà influenzare dalla opinione negativa che ha il mondo, in generale, a proposito delle donne che vivono insieme? È contro questi pregiudizi che ho lottato nel corso di tutta la mia vita»[23].
Il Testamento costituisce un atto giuridico-legale, di carattere pubblico, di rivendicazione della specificità di una particolare condizione individuale contro il solo apparente universalismo insito nel sistema di valori e di diritti di origine patriarcale. Rosa, come Olympe, non si riconosce in una concezione dell’eguaglianza che si pone in termini esclusivi nei confronti delle differenze e si oppone a ogni tentativo di riduzione delle singolarità a categorie prestabilite e a ogni pretesa di interpretazione della necessità di integrazione e riconoscimento in termini di assimilazione e omologazione. L’eguaglianza non può e non deve dipendere dalla capacità di uniformarsi a valori esclusivi che ritardano o negano i diritti delle minoranze: l’eguaglianza, a differenza dell’identità, può darsi solo tra due entità distinte.
Si tratta di trovare una risposta al problema della “doppia lealtà” tuttora insito nelle democrazie liberali (da una parte l’aspirazione all’eguaglianza e dall’altra la conservazione delle differenze), senza ricadere in un relativismo radicale che assegni diritti diversi, “speciali”, a seconda delle specificità biologiche e sociali e senza, d’altra parte, concepire l’universalismo come semplice generalizzazione di una condizione particolare e singolare che diviene modello dominante al quale tutto va ricondotto e ridotto.
«Eguali e diversi: riusciremo ad esserlo?»[24].
NOTE
[1] T. Todorov, Nous et les autres. La réflexion française sur la diversité humaine, Éditions du Seuil, Paris 1989, p. 513.
[2] S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 117.
[3] Si ricordi che negli anni appena precedenti e subito successivi alla Rivoluzione è ancora in vigore il Code noir, un editto reale di Luigi XIV che regolamenta e legittima la schiavitù nelle colonie francesi.
[4] E. Lairtullier, Les femmes célèbres de 1789 a 1795, et leur influence dans la Révolution. Pour servir de suite et de complément à tout les histoires de la revolution française, Paris 1840, p. 109. Le traduzioni, salvo indicazioni diverse, sono mie.
[5] E. Demeester, «Olympe de Gouges, une victime de la Révolution», La Nouvelle Revue d'Histoire, n. 72, maggio-giugno 2014, pp. 15-17.
[6]Ivi.
[7] Nel 1793 la messa sotto accusa del partito dei Girondini spinge Olympe a inviare una lettera al presidente della Convenzione nazionale in cui denuncia tale atto come antidemocratico: la lettera viene censurata in corso di lettura.
[8] In Italia, il convegno Asimmetrie della cittadinanza: diritti e doveri delle donne, organizzato nel 1991 a Roma in occasione del bicentenario della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges, ha dato origine al testo G. Bonacchi e A. Groppi (a cura di), Dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Laterza, Roma-Bari 1993.
[9] T. Todorov, Nous et les autres, cit., pp. 21-34.
[10] Rodotà chiama questo modello di eguaglianza, alternativo a quello costituito dal melting pot, “versione pluralistica dell’eguaglianza”. Si veda S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, cit., pp. 115-130.
[11] La versione completa della Dichiarazione è disponibile on line in versione francese alla pagina https://fr.wikisource.org/wiki/D%C3%A9claration_des_droits_de_la_femme_et_de_la_citoyenne (ultima consultazione: 22/01/2018). Il riferimento qui è alle pagine 5 e 6.
[12] Si veda C. Fauré, La démocratie sans les femmes: essai sur le libéralisme en France, PUF, Paris 1985, p. 192. Fauré definisce la mancata volontà di Condorcet di sostenere la cittadinanza delle donne, a fronte del suo impegno per i diritti femminili, una “défaillance finale”.
[13] De l’influence de la Révolution sur les femmes, in Révolutions de Paris, n. 83, 12 febbraio 1791.
[14] N. Bobbio, La Rivoluzione francese e i diritti dell’uomo, in Id., L’Età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, p. 99.
[15] U. Gerhard, Sulla libertà, uguaglianza e dignità delle donne: il “differente” diritto di Olympe de Gouges, in G. Bonacchi e A. Groppi (a cura di), Dilemma della cittadinanza, cit., pp. 37-58.
[16] A. Rossi-Doria, La libertà delle donne. Voci della tradizione politica suffragista, Rosenberg & Sellier, Torino 2004, p. 263.
[17] A. Klumpke, Rosa Bonheur, sa vie, son œuvre, Flammarion, Paris 1908, p. 37. Il testo è disponibile on line alla pagina https://archive.org/details/rosabonheursavie00klum_0 (ultima consultazione: 24/01/2018).
[18]Ibid., p. 312.
[19]Ibid., p. 251.
[20]Ibid., pp. 181, 186.
[21]Ibid., p. 107.
[22]Ibid., p. 360.
[23]Ibid., p. 114.
[24] S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, cit., p. 130.
(26 gennaio 2018)