Lettere dal degrado umano - Il Sole 24 ORE
Sono passati 60 anni dalla legge che la socialista Lina Merlin (originaria di Pozzonovo di Padova) riuscì a far approvare dopo un decennio di tentativi, rinvii e opposizioni alla sua proposta di abolizione delle case di tolleranza: rileggere oggi le tante lettere che le arrivavano dalle prostitute recluse nei bordelli, che aveva pubblicato insieme a Carla Barberis nel 1955 (Il Gallo edizioni) e che oggi sono disponibili online grazie alla Fondazione Kuliscioff, colpisce e fa capire il contesto storico-sociale nel quale maturò il provvedimento.
Eletta tra le 21 costituenti, inclusa tra i 75 cui era affidato il compito di scrivere la Carta, Merlin è in prima linea nella lotta per l’affermazione dei diritti delle donne in un’epoca in cui non erano riconosciuti neanche quelli primari (si deve a lei l’introduzione, nell’articolo 3 della Costituzione che recita che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, dell’espressione «senza distinzioni di sesso»). Nel 1948 la socialista conquista un seggio al Senato e dà il via alla sua attività con la proposta di legge sulle case di tolleranza, che si qualifica subito come rivoluzionaria e troppo ambiziosa per i tempi e viene così messa da parte. Lei non si abbatterà, la ripresenterà anno dopo anno, ricevendo, appunto, decine di lettere dalle dirette interessate che vanno anche a trovarla in Parlamento. Merlin, peraltro, non pensa di vietare «ciò che è insopprimibile, cioè il mercato dell’amore» (come scrive nell’introduzione), ma punta a cancellare lo sfruttamento perpetrato all’ombra delle leggi dello Stato in una modalità bieca e che marchiava a vita le donne: le quali, anche volendo abbandonare le case, non erano più in grado di ricostruirsi un’esistenza, bollate dalla società, private della possibilità di trovare un lavoro e immaginare un futuro normale emancipandosi dal degrado. Il loro era un presente di schiavitù, come racconta “una delle tante” (così firma la lettera) descrivendo una giornata di lavoro massacrante: «15 ore estenuanti sotto la luce accecante del neon, stordite dalla voce rauca della megera se non ci diamo da fare, prive di aria perché le finestre sono ermeticamente chiuse dato che sporgono nel centro. La mattina che siamo libere, che si potrebbe uscire per goderci un’ora di sole, bisogna poltrire in letto perché uscire da sole è vietato, ordine del questore. Dice che teme si dia scandalo, e permette che i tenutari nei caffè parlino ad alta voce dei loro loschi incassi, del loro turpe mestiere, questa non è moralità, vero? In altre città i dottori neppure visitano, quindi non si è sicure della nostra salute. In altre bisogna dare 10mila lire al segretario per avere il posto. (...) Ed allora signora lottate perché questo triste mercato cessi, chiudete queste tombe dei vivi».
Impressionanti anche le lettere sfavorevoli al progetto di legge, scritte da donne consapevoli di non avere alcuna alternativa, che già ab origine si erano ridotte a fare la “vita” costrette dalla povertà, dal non avere orizzonti, e che a maggior ragione - con la chiusura dei postriboli - si vedevano letteralmente perse. Senza pensare che una malattia, una gravidanza o il no del tenutario perché erano ormai in là con gli anni avrebbe già posto il problema che le atterriva. Un problema che ha in realtà a che fare, scrive ancora Merlin, con la «mortificazione di un gran numero di donne disgraziate nella presunzione di provvedere a un servizio sociale». La legge fu approvata il 20 febbraio 1958.
Lettere dalle case chiuse, a cura di Lina Merlin e Carla Barberis, scaricabile su www.fondazionean-nakuliscioff.it alla voce “pubblicazioni”
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