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Leïla Slimani I racconti del sesso e della menzogna: il nuovo libro della vincitrice premio Gongourt

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

La scrittrice premio Goncourt nel suo ultimo libro-inchiesta, I racconti del sesso e della menzogna, dà voce alle donne del Marocco.

di Marta Cervino - 17 Febbraio 2018 - 9:07

VITALITÀ che traspare in ogni parola. Leïla Slimani ha parecchie cose da dire, specie se si parla di donne. Ha 36 anni, due figli, doppia cittadinanza (è nata a Rabat, in Marocco nel 1981 da madre medico e padre banchiere, ma vive a Parigi da 20 anni), è una delle scrittrici più amate e vendute di Francia. Il suo romanzo d’esordio Nel giardino dell’orco ha fatto molto scalpore, il secondo Ninna nanna ha addirittura vinto il premio Goncourt e il nuovo libro, in cui torna alla passione originaria, il giornalismo, è un manifesto. I racconti del sesso e della menzogna (in uscita il 6 marzo da Rizzoli) sono un’esplorazione della vita sessuale in Marocco. Una serie di testimonianze da cui affiorano le contraddizioni di un Paese in cui «il sesso si ruba nelle auto», il codice penale prevede il carcere per i rapporti sessuali fuori dal matrimonio e per l’omosessualità. Abortire è illegale (tranne poche eccezioni) ma si fa larghissimo consumo di pornografia. Una società dove le leggi sono violate ogni giorno, basata sul «fate quello che volete ma fatelo di nascosto», l’onore viene prima di tutto e a portare il peso delle conseguenze sono le donne, per cui la scelta di vivere il corpo è un atto politico in un contesto che le vorrebbe o vergini o spose. Come Soraya, a cui la madre ripeteva «Ricordati!» (di rimanere vergine); F. che si prostituisce per mantenere la famiglia (ma il cui mestiere tutti fingono di non conoscere) e molte altre. Ci sono le confidenze, le scelte, il coraggio, i compromessi, di chi cerca ogni giorno il modo per vivere i propri desideri.    

 

 

Leïla Slimani vive a Parigi da più di vent'anni. Giornalista e scrittrice (il secondo romanzo, Ninna nanna ha vinto il Premio Goncourt ed è in corso di traduzione in 38 Paesi), è appena stata nominata dal Presidente Macron "rappresentante dellla Francofonia nel mondo" (©Lionel Bonaventure/Getty Images)

Com’è nata quest’inchiesta? Da giornalista mi interessava molto la difficoltà dei giovani marocchini a vivere la sessualità liberamente. Quando ho presentato Nel giardino dell’orco proprio in Marocco, una donna mi ha raccontato di sé. E ho capito che volevo dare la parola a loro. Rompere quel silenzio.

Che cosa l’ha colpita di più? Sapere che molte non sono appoggiate nemmeno dai familiari. Mi ha scioccato sapere che a una donna picchiata dal marito i parenti hanno detto che doveva tornare da lui, che una ragazza violentata è stata costretta dai genitori a sposare il suo stupratore. O che una giovane omosessuale è stata denunciata dalla famiglia.

Che cosa vuol dire oggi essere donna in Marocco? Molte cose, è una questione difficile da riassumere. Si può essere donna - finalmente - in molti modi diversi. Alcune lavorano, sono indipendenti economicamente, vivono da sole in città, hanno carriere professionali importanti. Altre appartengono a un contesto sociale molto diverso. Non possono far riconoscere i propri diritti e sono gravate da una pressione sociale pazzesca. Lo spettro è largo, ma il punto è proprio questa pressione: il dover corrispondere a un modello di donna “virtuosa” che rispetta le regole.

Lei è nata e cresciuta a Rabat, le cose sono cambiate dalla sua infanzia? Sì, il mio Paese si è molto liberato da quando ero piccola. E il cambiamento è avvenuto anche grazie ai media. La libertà d’espressione è maggiore. C’è spazio per il dibattito: alla tv e sui giornali si parla di libertà sessuale, omosessualità, tutti temi impensabili anni fa. Però siamo progrediti da un punto di vista sociale ma non molto da quello legislativo.

Lei com’è stata educata? Con l’idea che sono un individuo, che avevo diritto all’intimità, alla vita privata, che non avevo l’obbligo di raccontare tutto di quello che facevo. Che avevo diritto alla sicurezza, al rispetto, che ero uguale agli uomini. L’educazione sessuale dovrebbe passare da un’educazione sentimentale? I giovani tra loro, in privato, non in pubblico, sono romantici, c’è molta tenerezza. Faticano meno della generazione precedente a parlare d’amore. Il punto è che l’amore è un tabù perché è direttamente collegato alla sessualità. Bisognerebbe separarli. Renderli discorsi diversi.

Quali sono i tabù e le ipocrisie del Marocco? Tutto quello che non è nella norma è di fatto un tabù: dire quello che si fa, accettare che si possa avere una vita intima anche se non sei sposata o eterosessuale. E questo genera molteplici ipocrisie: si vive una doppia vita. Una sociale, davanti a tutti e una segreta, nell’ombra. E questa doppiezza sembra vada bene a tutti.

E le ipocrisie della nostra Europa? Difficile generalizzare, ma se devo indicarne una, il non valutare appieno che viviamo in società non egualitarie, in cui non beneficiamo degli stessi diritti. Nel caso delle donne bisogna essere consapevoli che a seconda dell’ambiente sociale e del luogo in cui si trovano sarà più o meno difficile per loro abortire, denunciare una violenza, avere la possibilità di un impiego, di un aiuto. Siamo tutti uguali, ma solo in teoria.

Scrive: «Le donne in Marocco devono trovare il modo di contare in una società ostaggio dei religiosi e del patriarcato». Come si fa? La prima cosa è parlare, rompere il silenzio. Guardi cosa sta succedendo dopo l’affare Weinstein con il #MeToo. Queste donne devono parlare e smettere di essere ostaggio della vergogna.  

Tutto quello che sta accadendo, fa sorgere delle domande. In realtà anche in Occidente siamo ostaggio del patriarcato. Anche in Europa ci sono abusi di potere, violenza sessuale, disuguaglianze salariali palesi. Il caso Weinstein prova che la molestia non fa parte di una cultura particolare ma è un sistema universale, collettivo, contro il quale le donne si devono battere collettivamente. La cosa straordinaria in questa situazione è stata vedere la solidarietà femminile, la capacità delle donne di unirsi e lottare.

Il #MeToo farà bene o diventerà un fiume in piena? Ci farà molto bene. Certo, tutti i grandi movimenti di cambiamento hanno generato eccessi. Ma è necessario che continuiamo a dire “anch’io”. Sono ottimista, penso che gioverà a tutti: uomini, donne, e alle generazioni future.   

Come si può evitare il vittimismo? Le donne non sono vittime. Non è questo il punto. Non si nasce vittime, a volte lo si diventa. Rivendicare i propri diritti, denunciare chi ci fa del male, è l’opposto: rifiutarsi di essere vittime. È diventare una cittadina intera, completa.   

Sembra una guerra. Ma così non rischiamo di perdere il lato leggero delle relazioni? Non credo che questo sia in pericolo. Eliminare la violenza migliorerà le relazioni.

Che cosa si deve insegnare alle nuove generazioni? A guardare il mondo e gli altri senza scenari prestabiliti. Bisogna educare alla complessità. Non aver paura di dire ai bambini che il mondo e le persone sono più complicate di quanto siamo portati a credere.

Che cosa dovremmo far capire agli uomini? Che abbiamo la stessa dignità: lavoriamo come loro, paghiamo le tasse come loro, educhiamo i figli. Abbiamo gli stessi doveri, le stesse pressioni ma non abbiamo la sensazione di aver lo stesso posto e la stessa considerazione nel mondo. E questo non è giusto. Dovremmo educarli alla giustizia nei nostri confronti.

Che cosa vorrebbe per tutte le donne? Che fossero libere, il più libere possibile.

Lei si sente libera? Completamente.

Che cos’è la libertà? La possibilità di inventarsi.

 

 

I racconti del sesso e della menzogna, il nuovo libro di Leïla Slimani esce da Rizzoli il 6 marzo.

© Francesca MANTOVANI/Opale/Leemage

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scritto da Marta Cervino
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