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Felicità: quando le donne ne hanno fatto un pilastro politico

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Sulle librerie digitali l’elenco, anche solo in italiano, è lungo: la felicità sembra, come non mai, un tema della politica. Eppure non è affatto una novità. Le donne, a proposito, non soltanto hanno molto da dire. Ma l’hanno già fatto. Raffaella Baritono, che coordina il corso di Dottorato in Politica, istituzioni, storia all’Università di Bologna e che ha scritto una bella introduzione al volume collettivo Felicità della politica Politica delle felicità, frutto della Scuola estiva della Sis, ha accettato di ripercorrere con noi le tracce di questo ormai lungo rapporto tra impegno politico femminile e felicità. Non si tratta soltanto di un’elaborazione teorica. Ma anche di un sentimento molto concreto: la felicità di ritrovarsi insieme in piazza per protestare e rivendicare diritti. C’è anche un risvolto della medaglia: “l’infelicità” prodotta dalle aspettative deluse, dai passi indietro. Dalle nuove solitudini.

Raffaella Baritono, docente all’Università di Bologna.

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Professoressa Baritono, di politica della felicità si parla dal Settecento: quando entra la “variante” delle donne? Esiste, in particolare, uno specifico “trattamento femminile”, storicamente? In ambito anglo-americano, la filosofia empirista rese il tema della felicità in politica, nel Settecento, oggetto di discussione e di riflessione teorica. Inevitabilmente, ne furono attratte donne intellettuali, come Abigail Adams negli Stati Uniti e, soprattutto, Mary Wollstonecraft, in Inghilterra. Il clima rivoluzionario, che si nutriva dei principi di libertà individuale e uguaglianza, dei diritti naturali, costituiva già di per sé un potente messaggio per i primi nuclei di riflessione delle donne. Nel 1776 Abigail Adams scrisse al marito non solo di “ricordarsi delle signore”, ma di rammentare che “gli uomini di buon senso” respingevano l’idea di una naturale predisposizione a considerare le donne sottomesse. Dovevano, invece, far uso del loro potere di protezione solo in nome della felicità delle donne. Per Mary Wollstonecraft, la felicità poi non poteva che essere collegata all’idea di libertà delle donne perché, sosteneva, se alle donne “non è concesso… di respirare l’aria rigenerante e penetrante della libertà, allora sono destinate a languire sempre”. In sintesi, se l’infelicità delle donne era espressione della loro “schiavitù”, la felicità era perseguimento del progetto di libertà, in ambito domestico prima ancora che in quello politico. Nella riflessione politica e filosofica maschile, ben presto il tema della felicità o della ricerca della felicità scomparve . Nella riflessione e nella pratica politica delle donne invece il nesso fra felicità privata e felicità pubblica rimase (e rimane) sempre fortissimo. Per le donne, la felicità era il frutto della libertà e la felicità era sia privata sia pubblica. A metà Ottocento la suffragista tedesca Louise Otto scriveva che “essere libere non è nulla – diventare libere è il paradiso”. La battaglia di libertà di tutte le donne, quindi, perfezionava quest’idea di felicità.

Abigail Adams, femminista e consulente del marito, secondo presidente degli Stati Uniti.

Quale felicità, dunque?Come ribadirono le suffragiste americane riunite nel 1848 a Seneca Falls, si trattava soprattutto di rivendicare quella “ricerca della felicità”, entrata nella Dichiarazione di Indipendenza. Da questo punto di vista vi sono delle analogie fra i primi movimenti delle donne e alcuni esponenti del socialismo inglese, come William Thompson, per il quale la “felicità è politica”, perché legata alla cooperazione, all’esistenza di una società democratica che si fondi sul il principio di uguaglianza oltre che di libertà. Per riprendere Simone Weil, la felicità non la si può desiderare senza una ragione, ma, come osserva Luisa Muraro, ci possono essere buone ragioni per essere felici e forse questo desiderio può essere considerato “un bisogno essenziale dell’anima”. Da questo punto di vista il femminismo ha rappresentato, per citare Anna Rossi-Doria, come uno ”dei rarissimi momenti di felicità pubblica”, perché,e questo lo dice Muraro, il femminismo non è stato solo domanda di uguaglianza e diritti, ma anche un movimento che ha riguardato “la sostanza della politica, incorporata alla materia prima del vivere: corpi vivi, sessualità, desideri, affetti”.

A tale proposito, la politica per le donne è stata a lungo soprattutto impegno sociale e protesta. È vero che esiste una felicità della disobbedienza? E dell’impegno sociale? Non le sembra che questo spinga pericolosamente a sottolineare la “naturale” vocazione delle donne all’accudimento?Se la disobbedienza è atto creativo, messa a nudo della violazione dei diritti e delle discriminazioni, se disobbedire rimanda anche a un impeto morale, probabilmente nel momento in cui si disobbedisce a un ordine ingiusto, oppressivo e autoritario e se questo avviene dentro forme collettive di solidarietà e di resistenza, allora forse vi è anche una “felicità della disobbedienza”. I racconti, le memorie delle donne che hanno disobbedito, nelle diverse forme in cui è avvenuto storicamente, rimandano anche a espressioni di una felicità che significa consapevolezza di prendere in mano il proprio destino e assieme alle altre provare a trasformare la realtà delle cose. Nella disobbedienza non vi è solo il singolo atto di rifiuto di aderire a norme e valori ingiusti, ma vi è anche un’idea di futuro, la convinzione che attraverso l’atto di disobbedienza si possano porre le basi di un diverso ordine delle cose. Non è impegno sociale tout court, ma passione politica, condivisione, messa in discussione di certezze e ruoli precostituiti in un processo di liberazione individuale e collettivo.

Autoritratto di Chandra Talpade Mohanty (nel 2011), sociologa e femminista indiana.

Fare “movimento” ha reso felice una generazione di donne europee: si può dire lo stesso, oggi o in passato, delle donne di altri continenti?Se nei femminismi, la ricerca della felicità è ribaltamento delle norme e dei vincoli, se è lotta per la libertà e per un’uguaglianza non formale,questi sono processi che riguardano i movimenti delle donne anche in contesti non euro-americani. Le donne latinoamericane, quelle africane, il movimento delle donne indiane e le ragazze che hanno contribuito alla breve stagione delle cosiddette primavere arabe dimostrano che l’esperienza collettiva non appartiene solo alla storia delle donne europee o nordamericane. La studiosa di origine indiana Chandra Mohanty ha denunciato una rappresentazione delle donne “del terzo mondo” che le ha incapsulate nello stereotipo delle donne vittime della tradizione e della religione, perennemente oppresse e inserite in contesti immobili e senza storia. Ciò che emerge sia dalla ricerca storica sia dall’attivismo politico transnazionale delle donne è invece una presenza forte che risale all’Ottocento. Gli appuntamenti promossi dalle Nazioni Unite sui diritti delle donne rappresentano solo l’ultimo esito di un dialogo (come pure di conflitti) che hanno riguardato le relazioni e gli scambi fra donne del Nord e del Sud del mondo.

Esiste un pensiero politico sulla felicità teorizzato (in passato) da filosofe politiche?Direi di sì. Se il discorso sulla felicità delle donne si struttura, come io credo, su quello della libertà, da Mary Wollstonecraft in avanti, le teoriche politiche hanno anche, in maniera più o meno esplicita, riflettuto sul tema della felicità. Un riferimento potrebbe essere quello di Simone Weil, come ho accennato prima. Ma citerei anche a un testo di Luisa Muraro, Al mercato della felicità (2009). Non vorrei dimenticare, per restare all’Italia, Carla Lonzi e il testo femminista della serie dei Sottosopra della Libreria delle donne, dal titolo Un filo di felicità.

La filosofa francese Simone Weil (1909- 1943)

C’è un paradosso. O un risvolto della medaglia. Nei sondaggi recenti appaiono più “felici” le donne meno emancipate e provenienti da Paesi più patriarcali. Il dato è stato usato dai conservatori (e da molte donne: “Era meglio prima”): come si risponde? Risponderei come hanno fatto negli Stati Uniti a proposito di uno studio del 2009 di B. Stevenson e J. Wolfers dal titolo The Paradox of Declining Female Happiness, che la felicità non è sinonimo di “realizzazione professionale”, o meglio di accesso a determinate professioni, né tantomeno, secondo le indicazioni della cosiddetta “industria del pensiero positivo”, apprendimento e utilizzo di tecniche di auto valorizzazione, finalizzate al solo benessere materiale. Come ha messo di recente in luce la giornalista e scrittrice, Jill Filipovic, in The H-Spot: The Feminist Pursuit of Happiness (2017), non si deve confondere “felicità delle donne” con “parità dei sessi”, intesa come adeguamento a valori e stili di vita modellati sui desideri maschili. Anzi, è proprio l’adeguamento a un “sistema costruito da e per gli uomini” una delle cause più frequenti dell’infelicità delle donne. D’altra parte, come negli anni Settanta recitava la strofa di un canto del Movimento femminista romano, “Felicità tu sembri / un gioco fatto ma non è vero…” e, per ritornare al documento di Sottosopra del 1989, “la felicità ci viene dal senso che hanno preso le nostre vite per se stesse”.

19 febbraio 2018 (modifica il 19 febbraio 2018 | 10:43)

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