Mobina, le donne "a mani aperte"
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Mobina, le donne a mani aperte
La storia della coraggiosa direttrice di Raio Rabia Balkhi che si batte per l'emancipazione femminile in Afghanistan
Mobina Khairandish, direttrice di Radio Rabia Balkhi
Pubblicato il 09/02/2012
Ultima modifica il 09/02/2012 alle ore 09:14
Ha gli occhi marroni e grandi, Mobina Khairandish, direttrice di Radio Rabia Balkhi, un’emittente indipendente che trasmette da Mazar – i Sharif , a nord dell’ Afghanistan, e che parla in particolare alle donne. La nostra intervista si svolge su Skype con l’amorevole aiuto del marito, che fa da interprete.
Mobina è l’ideatrice, conduttrice e produttrice del programma “A mani aperte” che va in onda, il lunedì, il giovedì e il sabato alle 9 del mattino. Trasmette in tre lingue, il dari, il pashto e l’ozbek, in questo modo è possibile raggiungere tutte le comunità presenti sul territorio. «Analizziamo aspetti religiosi e legali della condizione femminile per incoraggiare le donne a rivendicare i propri diritti. Spieghiamo loro a chi rivolgersi e come farlo. Il titolo che abbiamo scelto vuol spiegare che oggi le afgane hanno “le mani aperte”, possono chiedere maggiori diritti con la speranza di ottenerli. Nella puntata di sabato ci occuperemo dei diritti delle donne incarcerate. I casi riguardano soprattutto persone che sono fuggite dal tetto coniugale (e ciò rappresenta un reato) o hanno ucciso il marito a seguito delle violenze subite».
Mobina è una giornalista, laureata all’università di Balkh, ha da poco compiuto 30 anni e ha un figlio di due. La situazione per le donne in Afghanistan è peggiorata dal 2006, quando i talebani hanno ripreso il controllo di parte del territorio. Ora va stabilizzandosi, almeno stando alle parole di Mobina che racconta: «ora le donne sono più consapevoli dei propri diritti. Non tutte ma una buona parte, sa di aver diritto all’istruzione, a non subire violenza e di poter denunciare i soprusi subiti, a casa o fuori».La sicurezza è un tema cruciale per le afgane. Come descritto dall’ultimo rapporto dell’associazione ActionAid, pubblicato poco prima della conferenza di Bonn sul futuro del Paese, che si è svolta lo scorso dicembre, il timore maggiore delle donne sotto i 30 anni è di subire violenza sessuale. L’87% delle afgane è vittima di violenza domestica. Per tutte la sicurezza personale è la prima preoccupazione, più che la guerra o la possibilità di essere rapite. Oggi, la presenza femminile nelle istituzioni raggiunge percentuali considerevoli: il 25% di posti di lavoro governativi è ricoperto da donne, in parlamento sono il 27% (più che in Italia) ma la situazione è ancora precaria. «Molte ragazze oggi vanno a scuola (sono il 39% degli studenti, ndr) – racconta Mobina - ma la percentuale è ancora bassa e poi c’è il problema del lavoro. Possiamo lavorare ma ci sono poche possibilità. Molte diventano insegnanti o sono attive in qualche Ong e poi ci sono le artigiane. Sono molte e brave ma hanno il problema di riuscire a vendere i loro prodotti, a causa della concorrenza di quelli stranieri. Molte si scoraggiano e smettono. Potrebbero vendere all’estero e il Governo potrebbe fare di più per aiutarle». A Radio Rabia Balkhi, invece, il lavoro non manca. La squadra è formata da trenta persone, di cui dodici uomini, il resto sono ragazze e donne. Nata nel 2003, grazie all’idea di una Ong canadese, ha preso il nome di una poetessa persiana del Nono secolo, uccisa brutalmente dal fratello. Oggi, continua a essere una radio indipendente, che si finanzia grazie agli inserzionisti e con l’aiuto delle organizzazioni umanitarie. La loro missione, che è poi quella di Mobina, è di offrire supporto legale e mettere in comunicazione le ascoltatrici con le associazioni e le fondazioni che operano sul territorio e che possono fornire assistenza legale. Mobina non teme per la sua sicurezza: «sanno che lavoriamo per le donne e non abbiamo mai avuto problemi seri, le istituzioni ci proteggono». Sono le quattro e mezza in Italia, le otto di sera in Afghanistan e Mobina, insieme al marito Ahmad e al figlioletto Ahmad Mustafa, si prepara a mangiare. Sul tavolo c’è un piatto tradizionale afgano dal nome impronunciabile che è composto da riso, pezzi di carote e carne.
La tradizione si sposa con la modernità in questa donna, che alla domanda se qualcuna ancora porti il burqa risponde «qualcuna sì ma io non lo porto e non l’ho mai portato!». Poi conclude: «il mio sogno più grande è di non dover più presentare programmi che si occupino di violenza e dei problemi delle donne. Spero che i media e io per prima, incominceremo a parlare dei talenti delle afgane, delle loro conquiste e dei risultati raggiunti».
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