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The Handmaid's Tale ha un problema con la realtà

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

È stata la stagione della gravidanza. 12 puntate per partorire un bambino, il compito delle ancelle, tra tentativi di fughe, omicidi, suicidi e un clamoroso finale che inizia a rilasciare molta della tensione accumulata in due annate dando soddisfazione al pubblico e dolore ai cattivi.Non si può nascondere che la seconda stagione di The Handmaid’s Tale sia stata quantomeno altalenante, funestata da molti episodi che hanno allungato il brodo in attesa di alcune precise svolte collocate strategicamente nei momenti in cui il racconto più ne aveva bisogno. Forse 13 episodi erano troppi insomma o forse gli eventi ideati da Bruce Miller non era abbastanza (a seconda di come la si veda) o forse ancora, e sembra l’ipotesi più probabile, The Handmaid’s Tale ha tentato di essere qualcos’altro.

La serie vive di uno stranissimo parallelo, è arrivata nel mezzo del più importante movimento di revisione dei diritti di genere e ha quindi un rapporto con la realtà unico.

La prima stagione era andata in onda in un’America pre-Weinstein, dall’Aprile al Luglio del 2017, quando lo scandalo che ha portato ad una nuova consapevolezza e ad una più forte presa di posizione di Hollywood riguardo le questioni di genere, ha avuto il suo calcio d’inizio l’Ottobre seguente.

Nel momento in cui è uscita, questa serie che adatta un romanzo molto noto, studiato e conosciuto in America, era insomma la punta di movimento di rivalutazione delle storie e delle figure femminili al cinema cominciata diversi anni fa, un movimento chiaro e compatto ma non realmente ideologico né programmatico. La prima stagione raccontava una situazione, illustrava un mondo in cui le donne non contano più nulla.

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La seconda stagione invece è stata concepita in mezzo allo scandalo, ed ha tutto un altro atteggiamento, in un momento di forti cambiamenti, prese di posizione e lotta “armata” per i diritti delle donne ha raccontato la maniera in cui a Gilead si è incrinato lo status quo. The Handmaid’s Tale ha cercato quindi di affermarsi come lo show militante per eccellenza, di confermare un posizionamento e al tempo stesso enfatizzarlo: la serie della rivolta femminile e del #metoo. E quelle che sono sembrate vallate di noia in questa stagione erano in realtà le parti più militanti, più programmatiche in cui la serie conferma al pubblico di essere conscia del proprio ruolo. Quella che era una metafora facile da intuire (le donne della serie sono vessate solo di più che nella realtà, non diversamente), è diventata un contenuto reso esplicito da voci fuori campo, riferimenti poco mascherati all’attualità, lunghi sguardi in camera determinati e, oltre all’azione, anche una riflessione sull’azione.

Gli ultimi due episodi hanno mostrato infatti quanto The Handmaid’s Tale avesse da raccontare, e quanto sappia ancora farlo bene, con quell’atteggiamento tra il misterioso e l’esplicito, tra il frustrante (per le vessazioni) e il liberatorio (per gli occasionali spiragli). È un peccato allora che così diluito anche il ruolo di testa d’ariete del movimento #metoo venga meno. Troppo esplicito, troppo dichiarato, troppo pretestuoso. L’audiovisivo non funziona per proclami ma per allusioni.Lo dimostra uno dei migliori momenti della serie, presentato proprio nel penultimo episodio, uon che trabocca di amore per la cultura americana, incredibilmente privo di quella retorica buonista che contamina il patriottismo statunitense. È quando June per la prima volta da anni, accende una radio e capta una trasmissione di un’emittente di ciò che rimane degli Stati Uniti, parlano di tenere duro, di accoglienza dei profughi di Gilead e di farsi forza, dopodichè attacca Hungry Heart di Springsteen con “Got a wife and kids in Baltimore Jack / I went out for a ride and I never went back“. Scelta pazzesca che dà alla scena un feeling scevro di quello sciovinismo da bandiere sventolanti e una volta tanto: autentico.

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I coniugi Waterford hanno visto ribaltarsi i loro rapporti di forza e June ha lavorato come un Frank Underwood in catene, di manovre di corridoio e sotterfugi per infilarsi nella quiete della casa in cui è forzata. Ha stretto alleanze, ha conquistato favori, ha corrotto e contribuito a mostrare il vero volto del sistema di Gilead anche alle altre donne, quelle privilegiate. Le mogli. Quel che doveva accadere fin dall’inizio si è infine iniziato a materializzare ad un episodio dalla fine.

Il rimpianto riguarda allora lo sguardo sul sistema, una delle idee più sveglie e affascinanti della prima annata. Ciò che la serie ha clamorosamente mancato di approfondire sono le componenti di acquietamento, indottrinamento delle masse, convenienza, piccineria, delazione, cabotaggio e mantenimento del consenso di un sistema fondamentalista religioso cristiano (i campi di concentramento ad esempio non avevano connotazioni religiose come il resto dello stato). E ha mancato di farlo perché non era quello che gli interessava, almeno non quanto la discriminazione di genere. Lo si è visto con la morte di Eden, scacco centrale del finale e molto più finalizzata alla ribellione che al crollo del sistema. Del resto il suo amato, ugualmente colpevole, non ha avuto nemmeno una battuta in tutta la puntata.The Handmaid’s Tale insomma sa bene cosa vuole essere, non è stata certo di l’indecisione il suo problema, semmai l’eccesso di opportunismo e cinismo.

Quel che ora c’è da aspettarsi dalla terza stagione (confermata), dopo l’illustrazione del regime, la sua messa in crisi tramite la gravidanza e la speranza nel futuro, è l’effettiva lotta armata nel momento in cui nel mondo reale il #metoo porta a casa le prime conquiste formali (per quelle effettive purtroppo ci vogliono anni). June inevitabilmente lotterà per fuggire, per ritrovare sua figlia e per porre fine al regime di Gilead, com’è destinata a fare dall’inizio, trovando (sembra di capire) un alleato sempre più importante in tutte le donne, non solo le ancelle. Resta da vedere cosa accadrà nella realtà e come questa potrà influenzare la scrittura.

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