Il reportage Islam, laicità, democrazia: perché la Tunisia è sempre l’apripista del mondo arabo
Duecento pagine: è il distillato della seconda rivoluzione tunisina che, a distanza di soli sette anni da quella dei gelsomini che ha innescato le «primavere» in tutto il mondo arabo, potrebbe segnare un altro importante cambio di passo nell’unico reale percorso democratico che quella stagione ha prodotto in Maghreb e in Medio Oriente. Un vero kit progressista quello compilato dalla Commissione per le libertà individuali e l’uguaglianza (Colibe) e consegnato nelle mani del presidente della repubblica, Beji Caid Essebsi: abolizione della pena di morte, soppressione dell’articolo 230 del codice penale secondo cui l’omosessualità è un reato, riforma della legge sull’eredità nella direzione di una maggior uguaglianza tra uomini e donne.
Le promesse tradite
Questi i tre punti su cui promette di concentrarsi il dibattito già accesso in previsione delle elezioni legislative e presidenziali che si terranno nel 2019. Le elezioni municipali dello scorso marzo hanno consegnato il ritratto di un Paese stanco e demotivato sul piano politico: l’affluenza scarsa (35%) e, soprattutto, la defezione dei giovani hanno confermato la sfiducia nel processo democratico e la sconnessione dei cittadini dagli ideali della rivoluzione. Le promesse non sono state mantenute, la disoccupazione non è scesa, il costo della vita è aumentato, opportunità per le nuove generazione non si sono aperte e, anche se lungo la costa e nella capitale il turismo è in ripresa (quasi due milioni sono stati i visitatori stranieri da gennaio ad aprile), nell’interno, soprattutto nel bacino minerario di Gafsa, le famiglie sono ridotte in povertà.
La sindaca di Tunisi
Eppure non si stanca di fare da apripista, la Tunisia. Se la pena capitale non è più applicata dal 1991 (ma continua a essere pronunciata, teoricamente ci sono 70 persone nel braccio della morte) e persino il partito islamista moderato Ennahdha, per bocca del suo anziano leader Rached Ghannouchi, sull’articolo 230 ha dichiarato di non ritenere che «pronunciarsi sull’intimità delle persone sia prerogativa dello Stato», è sull’uguaglianza in materia di eredità che si gioca la partita. La donna, a norma di legge, in Tunisia eredita la metà dell’uomo con lo stesso grado di parentela. Una buccia di banana su cui è scivolata anche Souad Abderrahim, la vittoriosa capolista di Ennahdha a Tunisi (e appena eletta sindaca della capitale dopo lunghe negoziazioni): mentre lei in campagna elettorale rifiutava di prendere posizione su un tema così spinoso, sempre più famiglie sceglievano in autonomia di rimediare allo squilibrio attraverso donazioni tra viventi, da genitori a figli e tra fratelli e sorelle. Un tema tutt’altro che secondario, poiché chiama in causa tradizioni antichissime e il diritto di famiglia, una battaglia che ha portato in strada a manifestare migliaia di persone. E anche lo slogan viene da lontano: «Egalité».
La nuova sindaca di Tunisi Souad Abderrahim (Ap)
Quale modello
Ma quale direzione sta prendendo il complesso mix di politica e religione, democrazia e tradizione, aspirazioni riformiste e consapevolezza di essere un laboratorio sotto costante osservazione tanto da parte del mondo arabo come dall’Occidente? E, soprattutto, qual è il modello? La Turchia di Erdogan o i cristiano-democratici europei? Secondo Naoufel Eljammali deputato di Ennahdha, alla guida del comitato Diritti, libertà civili e affari esteri, già ministro del Lavoro tra il 2013 e il 2014, «la luce viene da dentro, dalla Tunisia stessa. Il modello lo offre la nostra storia. Perciò offriamo al mondo la nostra esperienza, che è unica. E forniamo la soluzione: oggi noi ci definiamo “musulmani democratici”, il nostro approccio alla politica ha rotto con le movenze islamiche classiche. L’ultimo congresso di Ennahdha ha sancito la separazione netta tra religione e politica. Un modello che i nostri amici europei dovrebbero valorizzare». Tra le poche emanazioni dei Fratelli Musulmani che non siano state represse nel mondo arabo (insieme al Partito per la Giustizia e lo Sviluppo marocchino), Ennahdha sembra aver trovato una terza via, tutta tunisina, all’Islam politico: «Se chiedi a un membro del partito se Ennahdha e i Fratelli Musulmani sono la stessa cosa ti dirà di no» commenta con un sorriso Rafik Halouani, esperto di elezioni e coordinatore della rete di cittadini Mourakiboun. E non si può dire che avrebbe del tutto torto. «Il modello tunisino è diverso da qualunque altro perché è diversa la società tunisina, da noi un pensiero religioso radicale ormai non ha più speranza di attecchire» spiega Halouani. «Senza contare che dal 2011 a oggi l’Islam politico ha cambiato rotta. I partiti politici sono emanazione della società, come da voi ora lo è la Lega di Salvini, e la società tunisina è senz’altro la più aperta di tutto il mondo arabo e di buona parte di quello musulmano. In Tunisia ha tradizionalmente vinto una visione progressista dell’Islam, è stata la prima società musulmana a interdire la schiavitù all’inizio del 1800, mentre alcuni paesi del Golfo l’hanno mantenuta fino alla prima guerra mondiale. Da noi la condizione della donna è in costante evoluzione. E non abbiamo nemmeno la tradizione dei putsch che portano i militari al potere nei momenti di crisi».
«Dignità e Verità»
Negli uffici dell’IDV, l’Istanza Dignità e Verità, nel quartiere Montplaisir di Tunisi, si prova con fatica a scrivere un nuovo capitolo della storia. Ibtihel Abdellatif, uno dei 13 membri della commissione e referente per le donne nel processo giuridico di transizione, interrompe un’audizione per parlare con noi: «La vittima nel processo in corso è lo Stato tunisino. Stiamo tirando le fila di un grande caso di corruzione in cui sono coinvolti Ben Ali e la famigli Trabelsi (la famiglia della moglie del dittatore, Leila, che molti qui chiamano “Lady Macbeth”, ndr). Ci sono uomini d’affari coinvolti, abbiamo loro ritirato il passaporto, dovranno rispondere alla giustizia convenzionale e alla giustizia transizionale. Ci dovrà essere una compensazione e miliardi di dinari rientreranno in Tunisia» conclude ottimista. «Ma la missione della Giustizia transizionale non è solo far rispettare la legge, è rivelare la verità. Per aiutare il Paese a procedere nel cammino. E ricompensare chi ha sofferto. I soldi che riusciremo a recuperare finiranno nella fondazione Karama per le vittime».
La catarsi mancata
Sessantacinquemila file relativi a violazioni dei diritti umani durante la dittatura. Ma solo 50 mila persone sentite finora. Duecento impiegati per gestire la massa di dossier e un budget risicato. L’IVD aveva quattro anni per finire il lavoro e la possibilità di richiedere un quinto anno in caso di ritardi. E sono in molti qui a ritenere che il lavoro dell’Istanza sia stato troppo politicizzato, oltre che troppo lento, e che si sia perduta l’occasione di fornire ai cittadini una nuova idea di giustizia. La catarsi, la riconciliazione sul modello sudafricano e marocchino, non c’è stata. Le autorità non hanno mai veramente collaborato. «La contro-rivoluzione, i vecchi collaboratori del dittatore che nel frattempo si sono riciclati, hanno fatto ostruzionismo» conferma Ibtihel Abdellatif. «Ma non possiamo buttare al vento il lavoro fatto finora. Qui, in queste stanze, abbiamo organizzato un call center per accogliere richieste e rispondere a dubbi, diamo a tutti la possibilità di depositare la propria testimonianza. Abbiamo centri di riabilitazione fisica e psicologica, nove uffici regionali per essere accanto alle vittime e non costringerle a venire a Tunisi, e sei unità mobili per raggiungere anche i villaggi più remoti. Io mi sono occupata soprattutto delle donne. All’inizio rispondevano in poche, pensavano che solo gli uomini avessero diritto alla giustizia, poi hanno capito che anche le vittime “indirette”, le mogli, le figlie degli arrestati, dovevano parlare». Tra le vittime c’è anche lei: «Se sotto Ben Ali, a causa del velo, che metto dal 1987, mi era proibito lavorare negli uffici pubblici e andare all’università, oggi ricevo regolarmente minacce per il lavoro che faccio all’IDV. Mi chiamano anche cento volte al giorno e al telefono mi fanno sentire il sonoro di uno stupro. Ho tre figli maschi che vanno all’università. Ne ho parlato con loro e abbiamo concluso che se io, che sono una leader, mollo, nessuna donna parlerà più. In questa fase non possiamo essere deboli, e siamo costretti a essere intelligenti. La rivoluzione ci ha dato una seconda vita, non possiamo tornare indietro».
Turiste sulla spiaggia di Sousse (Reuters)
Scelte simboliche
Non ha nessuna intenzione di arretrare nemmeno Mehrezia Labidi deputata di Ennahdha, già vicepresidente dell’Assemblea Costituente tra il 2011-2014. Archiviata la vittoria risicata alle municipali, guarda già al 2019: «C’è qualcosa di inquietante nella disillusione dei giovani verso la vita politica. È nostro dovere costruire un “bureau de la jeunesse” per dialogare con loro» dice. «Siamo l’unico partito politico che ha saputo produrre un’immagine di perseveranza, che ha uno zoccolo duro di seguaci. Ma non dobbiamo accontentarci, è imperativo creare ancora più apertura, più femminilizzazione, e pensare a programmi che puntino al miglioramento del quotidiano dei tunisini». Sull’immagine finora Ennahdha ha lavorato bene: la candidata alla circoscrizione 1 di Tunisi, Soaud Abderrahim professionista affermata, tailleur e capelli al vento, ha battuto l’avversario del partito modernista Nidaa Tounes. E nella circoscrizione di Monastir il partito islamista è arrivato a candidare un membro della comunità ebraica. Scelte strumentali, dimostrative? «Ma la politica è questo: dimostrare» non esita ad affermare Labidi. «In Francia ci sono partiti che candidano i “beur” (seconde generazioni con genitori immigrati dal nord-Africa, ndr) perché vogliono dimostrare di essere aperti dal punto di vista sociale. Noi vogliamo dimostrare che crediamo nelle donne e nelle minoranze. Nella Costituzione rivoluzionaria abbiamo scritto che la Tunisia è uno stato laico, aperto a tutti i cittadini, qualunque sia il loro sesso, religione, provenienza».
Un parente riflesso nella foto di uno dei poliziotti uccisi nell’attentato dell’8 luglio vicino al confine con l’Algeria (Ap)
«Non fare il ramadan»
Se la trasformazione è in corso, secondo Rafik Halouani, è proprio grazie al cocktail che si è creato tra il «femminismo di stato» à la Bourghiba (il «padre della nazione» che posizionò il Paese all’avanguardia del mondo arabo in materia di diritti delle donne sostituendo la prassi del ripudio con il divorzio e fissando l’età minima per il matrimonio a 15 anni, poi 18) e le istanze islamiste portate da Ennahdha: «La nuova costituzione tunisina è più avanguardista di quella dell’era Bourghiba» spiega Halouani. «Parla di libertà di coscienza e di separazione tra stato e religione. Ma la “laicità” da noi non può essere “alla francese” con lo Stato che impone scelte di vita ai cittadini, come vestirsi e dove praticare la religione. Per la Tunisia forse è più adatto il termine inglese secular e il modello che ne consegue. Ma al di là del vocabolario, ciò che è davvero importante è che il discorso su questi temi in Tunisia sia pubblico. C’è gente che manifesta per il diritto di non fare il ramadan e di avere locali aperti durante quel periodo, c’è uno spazio sociale in cui i valori si creano e si modificano. Certo, in un momento in cui globalmente crescono la destra e i nazionalismi, la Tunisia non fa eccezione: anche qui assistiamo al ritorno del nazionalismo, la tradizione in certi ambiti è ancora molto forte, ma se ne parla in maniera democratica. E non è solo questione di leggi, è questione di cultura». Si è dibattuto anche delle recenti affermazioni del ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, sul fatto che la Tunisia esporterebbe criminali? «Si è trattato di dichiarazioni poco educate da parte di un ministro. E gratuite. Lo Stato tunisino dovrebbe rispondere in maniera forte alle bugie e non giocare al gioco che si profila con la crescita dei populismi che ignorano i diritti dell’uomo. Come? Rifiutando categoricamente di collaborare alla creazione di campi di concentramento sulla sponda sud del Mediterraneo».
15 luglio 2018 (modifica il 16 luglio 2018 | 00:15)
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