Diritti civili, lo strano braccio di ferro diplomatico Canada-Arabia Saudita
Su un lato della barricata il primo ministro occidentale con le carte in regola del progressista, che ha fatto dei diritti umani e delle donne una bandiera della sua politica estera e una scommessa per la sua popolarità domestica. Affiancato da un ministro degli Esteri che ha un passato di illustre giornalista e critica di plutocrazie e oligarchie (a Est come a Ovest). Dall’altro lato l’erede d’una monarchia mediorientale tra le più ricche, influenti e allo stesso tempo retrograde al mondo. Che ha promesso di modernizzare il suo paese economicamente e con qualche apertura sociale.Mantenendo tuttavia il pugno di ferro politico-religioso, compresa la crescente incarcerazione e repressione di dissidenti. È la miscela che ha fatto esplodere una delle crisi diplomatiche - quella tra Canada e Arabia Saudita, tra Justin Trudeau, Chrystia Freeland e Mohammad bin Salman - più sorprendenti, violente e finora intrattabili persino su un palcoscenico internazionale oggi dominato dall’imprevedibilità di Donald Trump, il presidente della superpotenza statunitense che del ribaltamento di tradizioni e norme, in nome dell’unilateralismo di «America First», ha fatto la sua bussola. Una crisi che ha visto Riad rompere i rapporti bilaterali - diplomatici, economici e nell’istruzione - domandando a Trudeau scuse formali per aver condannato l’arresto di militanti sauditi - soprattutto donne - che si battono a favore dell’emancipazione. E che non accenna a ricomporsi: Trudeau negli ultimi giorni ha indicato di volere buoni rapporti ma non ha fatto passi indietro. «Continueremo a difendere i valori canadesi e universali, i diritti umani, in ogni occasione». Il Canada «sa ciò che deve fare», ha replicato a distanza Riad alludendo alla richiesta di «correggere l’errore», cioè le «interferenze» in questioni di «sicurezza nazionale».
Canada, 4 morti per una sparatoria. La polizia: «Cessato allarme»L’«assenza» dell’arbitro UsaLo scontro è diventato ancor più drammatico proprio perché, sullo sfondo, vede un ritiro americano da ruoli globali, di regista di squadra. Un tempo Washington avrebbe indossato i panni di grande mediatore in simili battaglie. Non oggi, pare. Oggi si limita a riaffermare che entrambe le nazioni sono alleati e a invitare alla calma. Anzi, forse Riad sta più a cuore di Ottawa: la dichiarata equivalenza tra i due partner è una stoccata a Ottawa e sono freschi i dazi commerciali contro il Canada e il braccio di ferro tra Trump e Trudeau al G7. Una retromarcia americana che evidenzia, semmai, tutti i rischi di vuoti di leadership per le democrazie transatlantiche, tanto più dopo che Londra e la Ue hanno a loro volta emesso comunicati molto prudenti.Un passo indietro è in realtà necessario per comprendere uno scontro solo all’apparenza strano. Il Canada si è schierato contro l’arresto in Arabia Saudita di due attiviste, Samar Badawi e Nassima al-Sadah. Un tweet di Freeland, venerdì scorso, ha invitato al rilascio di «militanti pacifici» dei diritti umani, una domanda tipica per Ottawa e già rivolta in passato. Badawi è oltretutto sorella di Raif Badawi, noto blogger in carcere dal 2012 per apostasia, tradimento e offesa alla religione islamica. Sua moglie e tre figli si sono rifugiati in Canada dal 2015. Ma fin da domenica la Casa di Saud che regna a Riad ha deciso che questa volta, forse per la diffusione così pubblica del tweet canadese, le critiche erano troppe: ha replicato con il richiamo dell’ambasciatore saudita e l’espulsione di quello canadese. La messa al bando di nuovi accordi commerciale o di business, l’ordine di dimissioni di asset e investimenti, la cancellazione di voli e il richiamo di migliaia di giovani sauditi che studiano presso istituti canadesi come di pazienti in ospedali del Paese. Freeland, per tutta risposta, ha ribadito che «il Canada difenderà sempre i diritti umani e diritti delle donne sono diritti umani». Sale la tensione diplomatica, l’Arabia Saudita inizia a liquidare asset canadesiLa realpolitik dietro l’escalationC’è, con ogni probabilità, anche un calcolo di realpolitik alle spalle dell’escalation. La posta in gioco immediata in cifre sembra bassa per entrambi: un interscambio bilaterale da circa 2,5 miliardi di dollari quest’anno, 1,5 miliardi di import canadese e un miliardo in direzione opposta. Gli investimenti sauditi in Canada ammontano a 6 miliardi dal 2006 a oggi. E uno dei contratti pluriennali più ingenti è già uno dei più controversi: la vendita da 12 miliardi a Riad di 900 veicoli corazzati made in Canada, utilizzabili anche per repressione interna. Potrebbero dunque prevalere gli obiettivi cercati. La monarchia saudita ha la preoccupazione di riformare il paese, diversificando la sua economia, senza alienare l’élite ultra-religiosa né perdere il controllo - nel caso delle donne va bene la patente purché restino condannate alla ferrea tutela di «protettori» maschi. Trudeau, da parte sua, nell’ottobre 2019 ha un appuntamento incerto con le urne e il desiderio di tener fede a promesse e rafforzare la sua immagine. Le incognite sono però sotto gli occhi di tutti: ogni incrinatura, nel difficile clima per relazioni internazionali e consessi multilaterali, minaccia di trasformarsi in pericoloso crepaccio. Trudeau, temono alcuni osservatori nella stessa Ottawa, potrebbe aver sottovalutato i nervi delicati di Riad e il proprio isolamento, ottenendo alla fine poco. Ma i rischi sono elevati anche per la «dura» oligarchia saudita: il sogno economico di bin Salman, già sospettato di eccessive purghe contro il mondo degli affari, è predicato sulla fiducia di investitori globali che potrebbero giudicare il suo nuovo atto, la guerra al Canada sui diritti umani e delle donne, una dimostrazione, più che visione, di volatilità, scarsa credibilità e in, ultima analisi, fragilità. © Riproduzione riservata