Quanti metri misura la felicità?
«I love walking in London, Adoro camminare per Londra», disse Mrs. Dalloway. «Davvero è meglio che in campagna». La passeggiata di Clarissa Dalloway, alle 10 di un mercoledì del giugno 1923, illumina alcune delle pagine migliori del romanzo di Virginia Woolf, Mrs Dalloway, appunto. Clarissa è felice di passeggiare per la città, di conquistarne, in qualche modo lo spazio. Di misurarlo. La stessa Woolf, spiegando di che cosa abbia bisogno una donna per esprimere il proprio talento, essere se stessa e quindi, in buona parte, per essere felice, avrebbe parlato di nuovo di spazio: «Datele una stanza tutta per sé e 500 sterline l’anno, lasciate, permettetele di dire ciò che pensa e ignorate la metà di ciò che ha creato ora, e scriverà un libro migliore, uno di questi giorni».
Emile Hirsch nel film “Into the Wild”, 2007, Paramount Pictures.
Una camera o il cielo stellato?
Spazio limitato, ma personale. All’estremo opposto, Christopher Johnson McCandless, il giovane inquieto che ha ispirato il libro e poi il film Into the Wild - Nelle terre selvagge era convinto di poter essere se stesso (e quindi, di nuovo, felice) in uno spazio sconfinato, non urbanizzato. Anche se non escludeva, paradossalmente, la presenza umana. Anzi, ammise: «La felicità è reale soltanto se condivisa». Ovvero se è sociale. Quindi, come scrisse Aristotele, è “impensabile” fuori dalla Polis. Dopodiché il concetto di “polis” è un po’ più complesso di “città”, ma ci conduce al punto: qual è il rapporto tra spazio abitato e felicità? Quanti metri quadri, o cubi, “misura” la felicità personale? E quella collettiva? Come cambia, nei tempi e nelle culture, il rapporto tra il nostro benessere e il luogo in cui viviamo? Visto che (come ha raccontato il 27 luglio Pierluigi Panza, su Corriere Innovazione) «vivremo tutti in grandi città» e che già oggi la metà della popolazione umana è inurbata, il tema, in qualche modo, si definisce da solo: possiamo pure dar ragione (come McCandless) al filosofo statunitense dell’Ottocento Henry David Thoreau e pensare che si è felici soltanto nei boschi e a contatto con la natura. Ma è più probabile che, come altri 4 miliardi di persone, dobbiamo quotidianamente modellare la nostra aspirazione alla felicità su ciò che la città può offrirci.
Pergamo, città ideale, non soltanto Duemila anni fa
Come avevano intuito i greci, la città ha molte qualità per farci star bene. Il punto è: quale città? Il mito della “città ideale” che dai tempi dell’architetto Ippodamo di Mileto (V secolo a.C.) accompagna la storia dell’Occidente è costellata di sogni, utopie, fallimenti. E qualche straordinario successo: nell’ottobre 2011, la rivista tedesca Geo raccontava come la Pergamo di Duemila anni fa, nell’attuale Turchia, si avvicinasse, non soltanto per l’epoca, a un luogo ideale per la piacevolezza della vita e il benessere dei suoi cittadini (ovviamente nell’antichità c’erano gli schiavi e le donne non godevano di diritti). Non a caso, il merito era di tre elementi che gli attuali urbanisti considerano alla base di una “smart city”: accessibilità, equo accesso alle risorse, spazi e attività comuni. Ciò non coincide esattamente con l’immagine di “città ideale” che, almeno per noi italiani, si lega alla piazza e ai palazzi rinascimentali del bellissimo dipinto anonimo esposto alla Galleria nazionale della Marche di Urbino.
Una ricostruzione della città di Pergamo, oggi in Turchia (Epa)
Esiste la “città perfetta”?
«Che però guarda caso raffigura una città vuota», fa notare Claudia Mattogno, docente di urbanistica presso il corso di laurea di Ingegneria edile-Architettura alla Sapienza di Roma. «Perché la città ideale, nel senso di una città costruita ex novo, a prescindere dagli abitanti e dal luogo, non funziona. E questo vale anche per i quartieri». Se si pensa al caos delle “città spontanee e addirittura delle megalopoli asiatiche e latino-americane, alla sporcizia della Londra ottocentesca (che offrì molti spunti alla letteratura, compreso il Frankenstein, o il moderno Prometeo di Mary Shelley di 200 anni fa) ci si potrebbe stupire.
Per la gioia del principe
In realtà, spiega Mattogno, «la città ideale rinascimentale è pensata per il principe e per la sua contentezza, ossia è molto intellettuale. Si basa su principi estetici: la proporzione, il rigore, l’armonia degli spazi e degli edifici. Ma non è pensata per chi deve abitarla. In qualche modo è un errore che sta facendo una parte dell’urbanistica recente: concentrarsi sulla bellezza, dopo gli eccessi del brutalismo, che per altro oggi qualcuno rivaluta, e dopo gli scempi della speculazione. Ma, ancora una volta, l’equivoco è credere che la città “perfetta” si possa creare a tavolino, a prescindere dal contesto. Tutto ciò che è ideale è decontestualizzato. Per questo non esiste neanche il “quartiere ideale”, perché ogni insieme di case deve fare i conti con il posto in cui si trova, i quartieri che lo circondano e la città in cui si trova. Permettetemi, però, di spezzare una lancia in favore degli architetti: molti progetti non hanno funzionato perché è mancata la gestione e la manutenzione successiva. Lo stesso Corviale di Roma, al di là del giudizio estetico e alcune ingenuità progettuali come il quarto piano destinato a servizi e attività sociali, è diventato un inferno perché non è stato gestito».
La funivia che attraversa le favelas di Medellín, Colombia (Foto Carlo Rotondo).
Gli inferni tra noi
Inutile dire: siamo circondati di “inferni” cittadini, che sembrano uccidere qualsiasi aspirazione alla felicità, nelle periferie come nelle megalopoli di gran parte del mondo. Non a caso, tornando alle citazioni letterarie, Italo Calvino, in un periodo in cui si sviluppavano il dibattito e le inchieste sulla crescita urbana abnorme e disordinata, ha scritto, nel finale de Le città invisibili (1972): «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Né la “felicità” appare tra le parole, come “desiderio” e “memoria”, che si combinano, nei titoli, con le 55 città immaginate dallo scrittore.
Una scorcio di Comuna 13, favela di Medellín, Colombia (Foto Carlo Rotondo).
Comuna 13: l’ex favela più pericola del mondo
Eppure negli inferni passati e recenti le persone hanno saputo, incredibilmente, creare i loro angoli di “paradiso”, individuali, familiari e collettivi. Comuna 13, l’ex favela più pericolosa di una città già di per sé pericolosissima, Medellín, in Colombia, è rinata, dopo il bombardamento e l’attacco dell’esercito del 16 e 17 ottobre 2002: sia perché è stata collegata agli altri quartieri (sono stati costruiti una metropolitana e una funivia efficienti), sia perché al suo interno sono state installate scale mobili che riducono i disagi della sua verticalità. Ma soprattutto perché i giovani, guidati da artisti autodidatti come Chota e il collettivo Kolacho, hanno saputo trasformare i graffiti, prima usati per “marcare” i territori, in affreschi che raccontano la vita della favela e la sua storia, e, al tempo stesso, hanno avviato, attorno a questa attività, una serie di altre iniziative, dai bar ai tour guidati che, a loro volta, hanno spinto gli abitanti a trasformare le loro case in botteghe e laboratori per turisti.
Un dipinto murale nella favela di Medellín, Comuna 13 (Foto Valeria Palumbo)
«Crediamo che si possa avere un mondo migliore»
«Medellín non è il modello di una città perfetta», ha scritto Jeihhco, tra i fondatori di Casa Kolacho (che oggi forma guide e artisti), «ma è una città laboratorio, nella quale sperimentiamo giorno per giorno, perché siamo stanchi di soffrire, perché siamo stanchi di vivere come abbiamo vissuto. Perché crediamo che sia possibile avere un mondo migliore e che siamo capaci di farlo». Conferma Chota: «Vedere che siamo in grado di cambiare Comuna 13 ci rende felici. E ci rende felici farlo tutti assieme». Questo introduce un elemento fondamentale del moderno dibattito sulla “felicità” delle città: la partecipazione. «Riappropriarsi del proprio quartiere attraverso una serie di attività», spiega Mattogno, «è fondamentale. Per questo un quartiere “ideale” non può più offrire soltanto salubrità – che pure è stato un passaggio fondamentale nelle città europee ed è all’ordine del giorno nel Terzo mondo-, accessibilità e trasporti. Ma deve proporre anche, come nelle città greche e romane, teatri, terme, spazi comuni e verdi, dove fare qualcosa assieme. Per questo i quartieri devono prevedere spazi che crescano e cambino, e nella cui trasformazione i cittadini siano coinvolti».
Chota, l’artista che ha promosso la rinascita di Comuna 13 (Foto Carlo Rotondo).
Nelle città-giardino si organizzavano villeggiature comuni
Perfino il coinvolgimento però cambia nei modi e nei tempi: nelle città-giardino che sorsero in Europa a inizio Novecento per offrire alla borghesia spazi alternativi alla densificazione dei centri storici, le persone hanno inventato una loro identità e un modo di stare insieme che rielaborava in parte la dimensione del villaggio e sfruttava però l’omogeneità sociale. A Montesacro, a Roma (battezzata nel 1924 come Città giardino Aniene), le famiglie andavano in villeggiatura insieme. Oggi, dopo decenni di speculazioni e stravolgimenti, si tenta di ricreare quel clima con l’Aniene Festival, epigono dell’Estate romana. In effetti, la famosa Estate romana organizzata da Renato Nicolini nel 1977 fu la migliore e più gioiosa risposta agli Anni di piombo e permise letteralmente ai cittadini di riconquistare, divertendosi, la capitale. «Ma oggi si rivalutano anche certe aggregazioni della città “densa” ottocentesca», fa notare Mattogno, «come gli isolati-cittadelle di Berlino, caratterizzati da una serie di cortili, quasi città nella città con una serie di attività produttive e una grande varietà sociale, ma anche una forte solidarietà e connessione». L’esempio più noto sono gli ormai ultraturistici Hackesche Höfe. Forse non a caso Berlino è anche una roccaforte del co-housing.
Ogni pomeriggio gli abitanti di Medellín si ritrovano nel Parque Berrío, una piazza centrale accanto alla metropolitana, per ballare e cantare (Foto Carlo Rotondo).
Il dibattito sulle periferie
Nel frattempo, però, almeno in Europa e, in parte, negli Stati Uniti, il dibattito si è spostato: dal centro ai sobborghi. Se nell’Ottocento i miti erano due, la città moderna e i quartieri residenziali per la borghesia, oggi il dibattito è proprio sulle periferie (e prima ancora, sulle borgate). In un curioso ribaltamento i vecchi centri storici incarnano, invece, pur nella loro veste rifatta, l’idea della città idillica e serena, tanto da ispirare grottesche imitazioni negli Stati Uniti e in Cina, come Dalian, un’improbabile neo-Venezia con edifici di stile nordico. Al contrario le città del futuro o futuristiche appaiono sempre più distopiche e minacciosamente infelici: basti pensare alla New York del 2263 del film Il quinto elemento (1997). Ben pochi oggi vorrebbero vivere nella Città Nuova dell’architetto Antonio Sant’Elia (1914), con i suoi grattacieli-stazioni, anche se in realtà proprio in Cina, a Chongqing è stato costruito una palazzone con la fermata del metro al sesto piano. Difficile non considerarlo un incubo. Non a caso nei film americani, quasi sempre, l’idea di un’abitazione povera e infelice coincide con il rumore assordante di un treno o di una metropolitana. La West Side Elevated Highway, oggi abbattuta, appare efficacemente nelle prime scene di Taxi Driver (1976).
Sobborghi e desperated housewives
Ma il dibattito sul legame tra il degrado delle città e “l’umore” sociale, negli Stati Uniti, è ancora più antico. E non riguarda soltanto sobborghi poveri e ghetti della popolazione di colore. Al contrario. Scriveva nel 1963 Betty Friedan, in un testo chiave del femminismo, La mistica della femminilità: «Ogni moglie che vive nei sobborghi lotta da sola. Mentre rifà i letti, va a fare acquisti per cena, rifodera i cuscini, mangia panini al burro d’arachidi con i suoi bambini, li scarrozza agli scout, si stende accanto al marito la notte, ha lei stessa paura di chiedersi: è tutto qui?». Ovviamente più che all’isolamento fisico, Friedan si riferisce a quello sociale, intellettuale ed economico delle donne e alla loro conseguente disperazione (avete presente il film Revolutionary Road del 2008 (dall’omonimo romanzo di Richard Yates del 1961)?). Ma la dimensione spaziale è tutt’altro che indifferente. L’antropologa Jane Jacobs estese questa riflessione a tutti i cittadini, nel 1961, con un libro rivoluzionario, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Jacobs denunciò la dittatura, fino ad allora incontrastata in America, delle automobili e si oppose alle autostrade urbane, rivalutando la vita dei quartieri.
Metri di verde pro-capite
Alcuni anni dopo l’urbanista italiana Vittoria Calzolari pose con forza il tema dei parchi in città: accanto ai servizi, i metri quadri di verde diventavano non soltanto un diritto di ogni cittadino ma anche il presupposto del suo benessere. Nel 1980 l’urbanista statunitense Dolores Hayden ritornò sul problema (irrisolto) femminile: come dovrebbe essere una città non sessista? Scriveva: «Che la casa sia il posto della donna è stato, nell’ultimo secolo uno dei princìpi fondamentali dell’architettura e dell’urbanistica degli Stati Uniti. (…) Abitazioni, quartieri e città disegnate secondo questo principio limitano le donne fisicamente, socialmente ed economicamente». E dunque quale città per cittadine felici? Hayden, suggeriva, fra l’altro: «Le donne devono trasformare (…) la separazione spaziale tra case e luoghi di lavoro nell’ambiente costruito, se vogliono essere membri della società con pari diritti». Stranamente (o forse no, viste le fobie contemporanee), il dibattito sulle “città a misura di donna”, in Europa, ha virato negli ultimi anni, quasi solo sulla sicurezza (benché gran parte della violenza sia esercitata in casa). In sintesi, le “città non sessista” sarebbe prima di tutto una città illuminata. E pazienza per le stelle, gli uccelli disorientati e il risparmio energetico.
Politecnico di Milano: progetto di via Celoria (Città Studi Campus Sostenibile)
Psicologi e urbanisti per la Milano di domani
«Invece», sottolinea Barbara Piga, architetto e docente al Politecnico di Milano, «la città è, nel senso migliore del termine, compromesso e resilienza: deve essere collaborativa e bilanciata, per essere felice. Deve essere una città per le donne, gli anziani, i bambini… e per l’ambiente». Non a caso Piga parla di una “città felice” («Può esserlo e lo sarà sempre di più»): proprio al Politecnico si occupa del Laboratorio di simulazione urbana Fausto Curti (www.labsimurb.polimi.it), che, sull’esempio del californiano Berkeley Laboratory e con il contributo dell’urbanista Peter Bosselmann, che l’ha ideato, si occupa di valutare in anticipo come gli abitanti “vivono” la trasformazione di un quartiere. Lo fa con un team all’avanguardia in Italia, che coinvolge anche psicologi ambientali. Spiega appunto lo psicologo Marco Boffi: «Finora la psicologia ambientale ha misurato il benessere o malessere delle persone di fronte all’esistente. Gli stessi “cantieri aperti e partecipati”, ormai una tradizione soprattutto in Francia, in genere coinvolgono i cittadini a progetto fatto o lavori iniziati. Li informano, accolgono le loro obiezioni. Ma qui si tratta, con l’aiuto della realtà virtuale o aumentata, di comprendere la loro esperienza prima che sia posta alcuna pietra. E di coinvolgere, grazie anche all’aspetto ludico, non soltanto i “cittadini attivi”».
Politecnico di Milano: progetto di via Celoria (Città Studi Campus Sostenibile)
Realtà virtuale e aumentata al servizio dei cittadini
«La specificità», aggiunge Piga, «è che noi siamo estranei al progetto: non tifiamo a favore né contro. Non vendiamo “case nel verde a 20 minuti dal duomo”. Usiamo la realtà virtuale, simulando una qualsiasi giornata d’autunno e una prospettiva normale, per offrire a progettisti e amministratori un elemento in più prima di agire: come lo vive la gente». Si tratta di una valutazione complessa: non di infilare in testa agli abitanti un visore, calarli in una simulazione - per ora soltanto visiva ma in futuro multisensoriale -, di come diventerà il loro quartiere e chiedere loro “ti piace?”. «Per questo servono gli psicologi», spiega Piga, illustrando l’esperimento pilota, su via Celoria, a Milano. Nel 2019 partirà invece un progetto di realtà aumentata, sempre a Milano, sulla zona di Porta Romana / Vettabbia, finanziato dal programma europeo Horizon 2020. «Non facciamo domande dirette: il questionario, messo appunto da esperti, viene poi valutato. E calibrato. Costituisce soltanto uno degli elementi della decisione finale, ma gli esperti si sono dimostrati molto interessati. Anche perché porta in primo piano un tema fondamentale per il rapporto tra città e felicità: l’atmosfera degli spazi, il benessere che generano».
Non è una questione di metri quadri ma di atmosfera
E qui il cerchio si chiude: star bene non è una questione di metri quadri o cubi, ma di atmosfera. Di relazione. E quindi non soltanto di soggettività. Vale negli spazi privati, negli spostamenti, nella città in generale. Vale, fra l’altro, in città che diventano sempre più complesse, nella loro geografia umana. E che, per essere “felici” devono essere aperte al cambiamento, che è continuo e inarrestabile. Lo dice benissimo la poetessa Emily Dickinson, che pure ha trovato la sua felicità in una stanza: «Io abito la Possibilità / Una casa più bella della prosa /più ricca di finestre / superbe le sue porte / È fatta di stanze simili a cedri / che lo sguardo non possiede / Come tetto infinito / ha la volta del cielo».