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Il caso Serena Williams? Ecco come si strumentalizzano il femminismo e l’antirazzismo per fare soldi

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Ricordate quando si diceva che il valore di uno sportivo si misura nel modo in cui accetta la sconfitta? Potete pure dimenticarlo. Grazie alla sceneggiata di Serena Williams durante la finale degli US Open abbiamo capito che nel 2018 neppure lo sport è al riparo dallo tsunami di ipocrisia che da tempo ha travolto i media di tutto il mondo.

I fatti sono noti. Serena Williams – la migliore tennista di sempre – si gioca all’Arthur Ashe Stadium la finale che potrebbe regalarle il 24esimo Grande Slam, issandola al primo posto nella classifica delle più vincenti di sempre, a pari merito con la leggenda Margaret Court. Peccato che Serena, coetanea di Roger Federer, vada per i 37 anni: a quell’età, le giornate da dimenticare sono da mettere in conto, soprattutto se davanti c’è la giapponese Naomi Osaka, che di anni ne ha 17 di meno, ha disputato un torneo pazzesco perdendo solo un set e sta giocando una finale perfetta.

I numeri, alla fine, saranno impietosi. Un solo doppio fallo contro i sei dell’Americana, che ha realizzato solo un ace e commesso quasi il doppio degli errori gratuiti dell’avversaria. Per la giapponese è una vittoria storica: è la prima nella Storia a vincere un Grande Slam. La Williams, si sa, odia perdere - lo ha dichiarato più volte nelle interviste: ma questa volta, oltre che perdere la partita, perde pure la testa. Durante il match, visto che il suo allenatore le sta urlando dei consigli tecnici e che ciò, nel tennis, sia considerato un’infrazione (“coaching”), il giudice la richiama verbalmente. Lei, nervosissima, risponde a muso duro, guadagnandosi un secondo richiamo ufficiale. E a quel punto, fuori di se dalla frustrazione per una sconfitta certa, la campionessa lo accusa di essere un ladro.

Se fossimo nel calcio sarebbe da cartellino rosso. Siccome siamo nel tennis, come da regolamento, le viene semplicemente tolto un game. E qui comincia una commedia dell’assurdo, con la Williams che, da quel momento, inizia a sostenere che la ragione della penalità è il suo essere donna. «Ad un uomo non sarebbe accaduto», grida in campo, e poi lo ripete anche in conferenza stampa. Peccato sia accaduto eccome: durante lo stesso torneo gli uomini hanno ricevuto 23 richiami ufficiali, le donne 9. E se proprio ci fossero dei dubbi, basta chiedere al nostro Fognini, che di richiami ufficiali e penalizzazioni è un noto habituè.

«Io lotto per i diritti delle donne. E non mi fermerò», afferma sdegnata in conferenza stampa. Ci si aspetterebbe che qualcuno si alzi e chieda alla Williams se lei pensi effettivamente di non aver ricevuto il “coaching”, talmente chiaro da essersi sentito pure in TV. O ancora meglio, che qualcuno le chieda se questa lotta comprenda anche l’aggressione verbale di cui si rese protagonista nello stesso stadio nel 2009, quando durante un’altra sconfitta bruciante contro la rivale di allora Kim Clijsters, gridò ad una giudice di linea donna «prendo la pallina e te la infilo su per il ...», più una serie di minacce e insulti assortiti, giustificandosi poi con un bel “tanto lo fanno tutti” e rifiutando di scusarsi.

A quei tempi, il gesto della Williams venne censurato all’unanimità. Ma quella era un’altra epoca, quella dove il femminismo era una cosa seria e il motto dei media di tutto il mondo non era ancora “strumentalizzare tutto, strumentalizzare subito”. Infatti in questa epoca, in cui il femminismo viene strumentalizzato per meglio vendere i giornali, all’irrompere della notizia che una tennista donna, e pure afroamericana, sostiene di essere vittima di discriminazioni, la bolla femminista letteralmente esplode. In America, blog e opinion leaders saliti alla ribalta nell’ultimo anno sulla scia del #metoo fanno della Williams l’ultima martire dell’odio maschilista – senza che si capisca bene quale sia il legame tra le donne costrette a subire il ricatto di un porco per poter lavorare e una tennista che per aver perso una partita si è appena messa in tasca 1,8 milioni di dollari.

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