Le ministre degli Esteri in Canada (da sole): «Ora un’agenda femminista»
L’obiettivo è chiaro a tutte: incentivare la presenza delle donne in politica e nelle posizioni di comando al fine «di promuovere la pace, la sicurezza ed eliminare la violenza di genere». Raggiungerlo non sarà facile ma il primo vertice mondiale delle ministre degli Esteri che si è svolto ieri e l’altro ieri a Montréal, in Canada, è sicuramente un segnale forte. A presiedere l’incontro la responsabile della diplomazia canadese, Chrystia Freeland, e l’Alta rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri, Federica Mogherini. Su 30 ministre degli Esteri in carica 17 erano a Montréal in rappresentanza di Andorra, Bulgaria, Costa Rica, Croazia, Repubblica Dominicana, Ghana, Guatemala, Honduras, Indonesia, Kenya, Namibia, Norvegia, Panama, Sudafrica, Ruanda, Saint Lucia e Svezia.
I numeri dimostrano che di strada da fare ce n’è ancora tanta. Basti pensare che gli Stati riconosciuti a livello internazionale sono 196, il che relega a un misero 15% la rappresentanza femminile nei vertici della diplomazia. Ma fondamentale è anche l’agenda: pensare una politica estera femminista che metta al primo posto l’empowerment delle donne e delle bambine perché «quando siamo tutte coinvolte nel processo delle decisioni le nostre società diventano più forti, le nostre economie e la nostra classe media diventano più prospere e le nostre nazioni più sicure» ha spiegato Freeland. E Mogherini ha voluto sottolineare i traguardi raggiunti: «Abbiamo compiuto passi da gigante - ha detto —. Molte di noi sono state le prime donne ad essere nominate ministre degli Esteri nei nostri Paesi».
Parole di incoraggiamento ma anche moniti sono arrivati dalle dieci rappresentanti della società civile che ieri mattina hanno incontrato le leader politiche. Tra queste Beatrice Fihn, direttrice della campagna per l’abolizione delle armi nucleari, Razia Sultana del Rohingya Women Welfare e Leymah Gbowee, l’attivista liberiana premio nobel per la pace. «Non basta dirsi femministe — ha detto Beth Woroniuk del Match International Women’s Fund — , noi vi giudicheremo dalle vostre azioni perché è inutile pronunciarsi a favore dei diritti delle donne se poi si vendono armi all’Arabia Saudita». E Theo Sowa, amministratrice delegata del Fondo per lo Sviluppo delle Donne Africane, ha lanciato un appello a pensare «a campi per i rifugiati dove le donne non corrano pericoli». «L’importante — ha detto, in un discorso molto toccante — è che non ci facciate sentire sole. Noi africane quando entriamo in un luogo dove si prendono decisioni importanti spesso siamo le uniche donne. E la sensazione è di grande isolamento». Quello che Sowa forse non immagina è che lo stesso accade anche in molti Paesi «sviluppati».