Un anno da leonesse: l’irresistibile ascesa delle donne che vincono di più dei maschi con meno tesserati
Una donna tesserata (1.173.074) ogni tre uomini (4.312.771). Le statistiche dipingono, anche nello sport, un Paese a trazione fortemente maschile: sul playground Italia la parità di genere numerica è ancora molto lontana da raggiungere, una legge sul professionismo delle atlete nel 2018 non esiste, sono tutte «dilettanti» e, in quanto tali, prive di diritti e tutele.
I numeri, oltre ai risultati. La percentuale media di tesserate per le 43 Federazioni sportive nazionali (sono 45 ma due non prevedono atleti) ha toccato nel 2017 il 27,2% del totale e sale lentamente dello 0,5% l’anno. Siamo lontani dal 32% della Gran Bretagna e dal 37% della Francia, ma soprattutto dal 50/50 di Usa, dei Paesi scandinavi e dell’Est europeo. A favore dei maschi giocano lo strapotere del pallone (23 mila calciatrici in crescita contro il milione abbondante di calciatori) e la «crisi di rigetto» che colpisce molto più le femmine che i ragazzi tra i 14 e i 17 anni, quando solo una su quattro continua a praticare l’agonismo. Lo straordinario successo del volley rosa in Giappone non è causale. Dopo quella della ginnastica (straripante 77% di donne: nell’inchiesta i risultati di una disciplina così sbilanciata non sono stati considerati), la Federvolley è la più rosa dello sport italiano con oltre 270 mila ragazze su 350 mila tesserati complessivi e un’organizzazione territoriale (scuole, palestre, tecnici) capillare e di grande tradizione.
L’equazione tante tesserate donne uguale grandi risultati non è sempre valida. Lo dimostra il ciclismo, che avanza eroico sulla strada dell’emancipazione debole di una quota rosa risicatissima (8%). Bene, tra Europei e Mondiali quest’anno le ragazze del pedale hanno tenuto testa ai maschi alla grande e, nell’ultimo decennio, li hanno surclassati per medaglie e record. Merito di una grande scuola, di atlete motivatissime e di pochi, però eccellenti, tecnici (uno su tutti il c.t. delle Nazionali femminili Dino Salvoldi).
Nelle Federazioni dov’è garantita (per tradizione o virtuosità) una quota rosa non troppo lontana dal 50%, le donne ottengono risultati al livello degli uomini o addirittura superiori. È il caso del nuoto (vasca e fondo, più i tuffi), degli sport invernali e di quelli del ghiaccio (dove da oltre due lustri regnano incontrastate le ex bambine Carolina Kostner e Arianna Fontana), della scherma (delle 7 medaglie dell’Italia dominatrice del medagliere ai Mondiali di Wuxi, in Cina, 4 sono delle schermitrici).
Nel corso del 2018, nelle discipline che hanno organizzato un Europeo o un Mondiale o i Giochi olimpici (invernali), le ragazze italiane hanno vinto di più dei maschi in 12 sport su 13 (abbiamo considerato i più importanti), nettamente o di misura. Unica sconfitta nell’atletica leggera: all’Europeo di Berlino dello scorso agosto alla sola medaglia femminile (il prezioso bronzo di Antonella Palmisano nella 20 km di marcia) hanno risposto i tre terzi posti di fondisti e maratoneti. Perché? L’atletica è disciplina dove il settore femminile risente drammaticamente degli abbandoni in età post-adolescenziale.
Le già poche 10 mila tesserate «ragazze» (12-13 anni) si riducono a 1.400 «promesse» un quinquennio dopo, formando una base talmente ristretta che cavarci fuori anche solo un gruppo di buone atlete, per non parlare di una campionessa, è già un miracolo. E, a differenza del volley (unica disciplina praticata capillarmente con regolarità dalle femmine nelle scuole italiane: dettaglio basilare), l’atletica nelle ore di educazione fisica di licei e istituti professionali è materia quasi sconosciuta.
Dilettanti, insomma, ma con un coraggio da leonesse. Concentrate al Nord, però con lo sguardo puntato sul futuro.
20 ottobre 2018 (modifica il 20 ottobre 2018 | 22:40)
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