Velo integrale vietato, l’Onu boccia la Francia
Sonia Yaker, oggi 44enne,francese musulmana, il 6 ottobre 2011 è stata fermata dalla polizia per strada a Nantes e multata di 150 euro perché portava il niqab, l’abito tradizionale islamico che copre tutto il corpo, viso compreso, lasciando scoperti solo gli occhi. Miriana Hebbadj, come lei 44enne francese musulmana, è stata controllata sempre a Nantes pochi giorni dopo, il 21 novembre, ed è stata a sua volta multata di 150 euro per la stessa ragione. L’avvocato delle due donne, Roger Kallas, ha fatto ricorso all’Onu e ieri il Comitato dei diritti umani gli ha dato ragione, dichiarando che «la Francia ha violato i diritti umani delle due donne quando le ha multate perché portavano il velo islamico integrale».
Si tratta di una condanna priva di effetti vincolanti, che però riveste un valore politico non trascurabile proprio nel momento in cui la Francia, in opposizione all’America di Trump, è impegnata a rilanciare il multilateralismo e a difendere la legittimità delle organizzazioni internazionali. Il Comitato, composto da 18 giuristi indipendenti (due dimissionari) tra i quali l’italiano Mauro Politi, chiede alla Francia di inviare entro 180 giorni un rapporto, raccomanda di «compensare» le ricorrenti e di prendere misure che evitino il ripetersi di casi simili in futuro, compresa la modifica o l’abrogazione della legge incriminata.
Islam, le leggi sul velo nei Paesi europei
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La cosiddetta legge sul burqa, voluta dall’allora presidente Nicolas Sarkozy, venne approvata nel 2010 tra molti dubbi presto accantonati. Secondo l’ultimo sondaggio del Pew Research Center, il 51% dei francesi pensa che sia giusto impedire alle donne di coprirsi il volto, e negli ultimi anni il dibattito semmai ha riguardato l’ipotesi di allargare alle università il divieto di segni religiosi visibili (per esempio il velo) già in vigore nelle scuole in seguito all’altra legge del 2004.
È molto improbabile quindi che la Francia si conformi alle richieste del Comitato dei diritti dell’uomo, che è stato creato per vigilare sul patto sui diritti civili del 1976 firmato anche da Parigi. «Le nostre decisioni non contestano il principio di laicità e non cercano di promuovere un costume che molti in seno al Comitato, me compreso, considerano una forma di oppressione contro le donne», ha dichiarato il presidente del Comitato, l’israeliano Yuval Shany. Quel che viene giudicato eccessivo è il divieto assoluto, che «non permette di assicurare un equilibrio ragionevole tra l’interesse generale e le libertà individuali».
Il Comitato dei diritti dell’uomo è composto da 18 esperti che si esprimono a titolo individuale, cioè non rappresentano gli Stati di appartenenza. Oltre al presidente israeliano Shany i componenti sono il francese Olivier de Frouville, l’italiano Mauro Politi e giuristi di Paraguay, Tunisia, Lettonia, Usa, Egitto, Sudafrica, Mauritania, Canada, Uganda, Grecia, Portogallo, Suriname, Germania. Il giapponese e il montenegrino si sono dimessi quest’estate e non sono stati ancora sostituiti.
«La nostra analisi non è politica ma giuridica — dice la lettone Ilze Brands Kehris —. Noi pensiamo che gli Stati possano esigere dalle persone che scoprano il loro volto in circostanze specifiche, per esempio per un controllo di identità. Ma in Francia la proibizione nello spazio pubblico è generalizzata, troppo radicale. Queste donne così vengono tenute ai margini della società, confinate in casa, e viene loro negato l’accesso ai servizi pubblici». Si stima che il divieto del burqa e del niqab in Francia riguardi all’incirca 2000 donne.
23 ottobre 2018 (modifica il 23 ottobre 2018 | 21:54)
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