Una donna premier per ridare entusiasmo alla vita pubblica
Si intitola "Perché è successo qui? - Viaggio all'origine del populismo italiano che scuote l'Europa" (La Nave di Teseo) l'ultimo libro di Maurizio Molinari, giornalista, direttore de La Stampa. Huffpost pubblica in anteprima un capitolo del libro, dal titolo "Pochi diritti". Il libro sarà presentato oggi alle 18 al Tempio di Adriano, a Roma, alla presenza dell'autore, del ministro dell'Interno Matteo Salvini e dell'ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.
Se l'impatto convergente di diseguaglianze, migrazioni e corruzione genera la rivolta del ceto medio è perché si innesca su un tessuto sociale composto da una moltitudine di singoli i cui diritti non sono sufficientemente protetti. I circa 150.000 giovani che ogni anno vanno all'estero per cercare opportunità sono accomunati dalla convinzione che il loro diritto al lavoro – previsto dalla Costituzione – non sia garantito, a prescindere dal livello di istruzione che riescono a raggiungere. Nel 2017 gli italiani che hanno scelto di vivere all'estero sono stati 155.000 – praticamente la stessa cifra dei due anni precedenti –, ma ciò che colpisce sono le fasce d'età: gli emigrati tra i 25 e i 34 anni sono stati 37.632 nel 2016, contro i 15.357 del 2011, con un balzo in avanti del 40,8 per cento. Se poi consideriamo la fascia di età compresa tra i 30 e i 34 anni, l'aumento è addirittura del 54,7 per cento. Ovvero, la grande fuga dal paese vede come protagonisti i giovani che hanno più energia, preparazione, voglia di affermarsi.
È un vulnus tanto grave quanto quello delle donne, perché solo il 43,3 per cento di loro percepisce un reddito da lavoro – contro il 62 per cento degli uomini – e ciò porta l'Italia a essere il terzultimo paese europeo – prima di Cipro e Malta – nel Global Gender Gap Report, che misura la differenza di opportunità di genere su economia, educazione, salute e politica. Nel 51 per cento dei cittadini, accomunati dall'essere donne, è diffusa la sensazione di vivere in una comunità nazionale che non concede pari occasioni nel lavoro come nella vita pubblica, per non parlare di coloro che subiscono abusi, molestie o violenze e scelgono di non denunciarle ritenendo che sarebbero incomprese, fino all'estremo di essere loro stesse a finire sul banco degli imputati.
Poi vi sono gli anziani, che si sentono abbandonati dalla sanità pubblica – e spesso anche dai famigliari – quando le loro infermità diventano serie, creando diffusi strati di malessere ed emarginazione, che si sovrappongono a quelli dei disabili. A dimostrarlo è il fatto che, secondo i dati istat, i disabili in Italia sono 3,2 milioni, di cui 2,5 milioni anziani. 1.800.000 sono considerati disabili gravi e, tra questi, circa 540.000 hanno meno di 65 anni. Di questi ultimi circa la metà non riceve aiuti pubblici, non si avvale di servizi a pagamento né può fare affidamento su familiari non conviventi. L'intero peso dell'assistenza grava dunque sulle spalle dei familiari conviventi. Delle 52.000 persone disabili che vivono sole, il 23 per cento usufruisce di servizi erogati dallo stato, il 15,5 per cento paga l'assistenza a domicilio, ma ben il 54 per cento, in caso di necessità, ricorre unicamente all'aiuto dei familiari non conviventi. Dunque il 19 per cento (circa 10.000 persone) non può contare su alcun tipo di aiuto e si trova in condizioni particolarmente critiche.
Sono sacche di popolazione che sommano più disagi, anche perché tanto gli anziani quanto i disabili spesso hanno difficoltà a muoversi in aree urbane dove la viabilità è limitata, i marciapiedi sono aggrediti dalle vetture di ogni tipo e le aree verdi scarseggiano. La presenza di più segmenti della popolazione titolari di diritti individuali non protetti rende la nazione nel complesso più vulnerabile al vento della protesta, che, quando inizia a soffiare, si alimenta di una molteplicità di rivoli e istanze, appartenenti a piccoli gruppi, che trasformano lo scontento in uno tsunami incontenibile. È questa carenza di cultura dei diritti nelle viscere dell'Italia che indebolisce il legame fra elettori ed eletti negli organi rappresentativi.
Le battaglie per i diritti – dal divorzio all'aborto fino alle unioni gay – sono state condotte, a partire dall'inizio degli anni settanta, da minoranze politiche illuminate che solo affrontando enormi sacrifici, personali ed economici, hanno portato a termine le rispettive campagne, trovando quasi sempre – alla fine – l'avallo della maggioranza dei cittadini. Anche oggi il fronte più avanzato delle battaglie per i diritti civili è composto da gruppi esigui, sebbene assai determinati. La denuncia degli abusi sulle donne, la difesa dell'opzione estrema dell'eutanasia, l'equiparazione fra famiglie gay ed etero e il diritto alla cittadinanza per gli stranieri nati in Italia costituiscono la punta più avanzata di un fronte che si trova costantemente alle prese con muri di gomma sostenuti da pregiudizi e ogni genere di resistenza. È questa dinamica dei rapporti sociali che trasforma i diritti in un noioso grattacapo, portando i singoli a sviluppare una sensazione di totale indifferenza – se non repulsione – rispetto allo stato di diritto che dovrebbe invece proteggerli e garantirli. È un processo che indebolisce il legame con le istituzioni rappresentative – come il parlamento –, che fa apparire alle nuove generazioni la Costituzione come un testo lontano e incomprensibile e dunque allontana dalla politica chi più crede nel rafforzamento dei diritti del prossimo come metodo per consolidare l'unità della nazione.
Se i partiti politici tradizionali avessero dedicato più tempo e risorse al rafforzamento dei diritti dei cittadini ciò avrebbe consentito al paese di avere uno scudo di anticorpi per fronteggiare la valanga populista. Più diritti sono garantiti, più i cittadini si identificano con lo stato, più entusiasmo c'è nei confronti dell'interesse collettivo. Altrimenti, i cittadini dallo stato si allontanano. In ultima istanza, dunque, è la carenza di legame dei cittadini con le istituzioni ad aver spianato la strada alla rivolta populista.
C'è un dato scientifico che identifica il nesso diretto fra carenza dei diritti e diseguaglianze economiche. Si tratta dell'indagine pubblicata l'8 marzo 2017 dall'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere, nella quale si afferma che "se l'Unione Europea vuole sviluppare una crescita inclusiva e sostenibile" ha bisogno delle pari opportunità fra i sessi, e in Italia, ad esempio, aumentando dell'1 per cento la forza lavoro femminile, si incrementerebbe il pil di almeno lo 0,28 per cento. In maniera analoga, il rapporto 50 Years of Women's Legal Rights, pubblicato dalla Banca mondiale nel 2013, attesta un "legame diretto" fra pari opportunità di genere nel mondo del lavoro e crescita economica, per il semplice fatto che il numero delle donne con un'occupazione è inferiore a quello degli uomini e, inoltre, esse tendenzialmente guadagnano di meno perché hanno salari più bassi. Dunque l'Italia ha bisogno di riconoscere alle donne un ruolo più significativo nella vita economica e, affinché ciò avvenga, serve una svolta sul piano dei diritti. Una strada per arrivarci potrebbe assegnare loro posizioni di maggiore responsabilità nella guida del paese.
All'Italia che il 4 marzo si è recata alle urne, chiedendo un forte rinnovamento della classe politica, potrebbe giovare avere una donna a capo del governo. L'opportunità ha un valore strategico. È un interesse nazionale. Per ragioni convergenti che nulla tolgono al valore degli uomini, a cominciare da Giuseppe Conte, che ricopre al momento questo ruolo. Se ci fosse una donna al suo posto, si scatenerebbe all'istante un fattore entusiasmo per la vita pubblica. Ci sono pochi dubbi sul fatto che milioni di italiani hanno votato solo per sconfiggere i partiti tradizionali e creare un nuovo assetto politico, ma si tratta di una coalizione di forze assai differenti fra loro, se non contrapposte, che in più rappresentano aree territoriali geograficamente separate. Dunque serve un elemento coagulante per mantenere il fattore entusiasmo, e nulla potrebbe avere impatto maggiore che la prima donna premier dalla nascita della Repubblica. Potrebbe trasformare l'entusiasmo per il voto in entusiasmo per il governo, contribuendo a rafforzare la credibilità delle istituzioni rappresentative in una stagione segnata dal loro indebolimento. In secondo luogo, non mancano candidate valide. La nuova legislatura si distingue per il numero record di donne elette e dentro ogni schieramento ve ne sono con competenze e capacità tali da poter diventare premier. Non solo: anche nelle altre istituzioni del paese vi sono donne in grado di garantire un profilo alto nella tutela dell'interesse nazionale. Dalla giustizia alla sicurezza, dalle professioni liberali all'amministrazione pubblica, vi sono donne con indubbie qualità per il governo del paese. Inoltre, una donna premier assegnerebbe all'Italia un ruolo di primo piano nel movimento per combattere abusi e violenze di genere, garantendo a ogni cittadino pari opportunità.
Il metoo che tiene banco negli Stati Uniti dall'indomani del caso di Harvey Weinstein e vede una moltitudine di donne denunciare pubblicamente chi commette abusi e violenze contro di loro indica una straordinaria opportunità per le istituzioni delle democrazie avanzate: dimostrare con i fatti che i diritti delle donne appartengono a tutti. Rompendo il tabù nazionale della donna premier – che resiste dal 1946 –, l'Italia lancerebbe un segnale folgorante in tal senso. E ancora: chi meglio di una donna potrebbe guidare il nostro paese nella sfida alle diseguaglianze, lì dove questo tallone d'Achille della società nazionale è rappresentato soprattutto da famiglie con figli che provano disagio per non poter coronare i propri sogni? Ultima, ma non per importanza, una ragione di valore strategico per l'Occidente: le democrazie sono aggredite dal terrorismo jihadista, il quale persegue la sottomissione di chiunque a un'ideologia intollerante che ha una parte centrale nella teorizzazione della sottomissione della donna. Scegliendo una cittadina come premier, l'Italia dimostrerebbe di saper esprimere, nel bel mezzo del Mediterraneo, il "soft power" più efficace contro i jihadisti. Insomma, dall'importanza di premiare la voglia di rinnovamento emersa dalle urne sino all'opportunità di favorire lo sviluppo sociale, dalla necessità di battere le molestie alla sfida di promuovere i diritti su scala globale, sono molteplici e vitali le ragioni che portano a suggerire la necessità per l'Italia di avere per la prima volta una donna alla guida del governo. Tocca ai partiti espressione della volontà popolare la responsabilità di raccogliere questa sfida. Per rafforzare la dimensione dei diritti dei singoli, al fine di rinnovare e rigenerare il legame con le istituzioni repubblicane.