Diritti degli individui o diritti dei gruppi?
Il problema dell’Islam europeoSi comprende, allora, quanto sia assurda un’accusa come quella di “islamofobia” mossa persino da chi, da sinistra, si professa laico. È del tutto evidente che sia interesse dei fondamentalisti scoraggiare le critiche al proprio corpus di dottrine, anche perché costoro mirano alla leadership politica ed economica all’interno dei propri gruppi culturali, costituiti di solito da maggioranze moderate, silenziose e operose. Ma è assurdo che chi è esterno a tali gruppi si faccia intimidire dall’accusa di “-fobia”. Se si vive nel contesto di una società liberaldemocratica e multiculturale, è cruciale esercitare una vigilanza costante sul rispetto dei diritti dei singoli cittadini, perché i gruppi religiosi tendono spesso a rivendicare spazi indebiti di autonomia non solo di costume ma addirittura giuridica. La Sciuto invita opportunamente a osservare le varie sfaccettature che assume l’islam all’interno delle varie società europee (come ogni cultura, esso si contamina e negozia pratiche e comportamenti con il contesto in cui opera) e mostra lo spettro delle possibili forme di vita su una scala che va dalla perfetta integrazione all’autoghettizzazione in spazi fisici e culturali chiusi e inaccessibili. A tal proposito ella discute ampiamente e con implacabile rigore logico-filosofico il problema del velo per le donne e del grado di libertà di scelta che sta alla base del suo uso. L’approccio multiculturalista improntato al “ponziopilatismo” (questo termine è introdotto in 5.6) suggerisce, ancora una volta, di non ficcare il naso in quello che apparentemente è un semplice “pezzo di stoffa”, ma la Sciuto sviscera tutto il carattere politicamente “performativo” di un simile capo di abbigliamento femminile e mostra che esso porta con sé dei significati culturali che in ultima analisi condannano la donna ad adeguarsi a un modello prettamente maschile di “modestia”, ancora una volta a danno dei suoi diritti individuali fondamentali. Non è, dunque, tanto un problema di vietare o non vietare il velo nelle nostre società, né basta parlare semplicemente di scelta; si tratta invece di esaminare di volta in volta su quali basi vengono effettuate certe scelte, cioè se una donna ha ricevuto un’educazione adeguata per una scelta sufficientemente libera e se una eventuale scelta contraria ai dettami del gruppo non la esponga al rischio di essere emarginata, maltrattata e persino uccisa.
La questione dell’identitàQuello dell’identità è un vecchio problema filosofico che la Sciuto affronta in chiave decisamente anti-essenzialista: non esistono essenze, né individuali né, tanto meno, collettive. L’idea che esista un’identità collettiva essenziale di tipo razziale, religioso o più genericamente culturale è un vecchio mito reazionario tipico di quelle che Karl Popper chiamerebbe “società chiuse” (da “La società aperta e i suoi nemici” di quest’ultimo la Sciuto preleva significativamente l’epigrafe generale del libro e quella del secondo capitolo). Anzi, l’identità collettiva è una di quelle cose che sembrano esistere per il fatto stesso che vengono nominate, ma a uno sguardo più attento, appena si cerca di definirle, si sciolgono al sole e rimaniamo con il nudo nome in mano. Non solo. L’“orgia identitaria” (p. 87) è spesso nient’altro che un’operazione di potere attraverso la quale la minoranza più agguerrita e fondamentalista di un gruppo cerca di esercitare un’egemonia culturale che mira sia a ottenere un riconoscimento politico-sociale sia a silenziare il dissenso interno, e in quanto tale essa è strutturalmente nemica dei diritti individuali che lo Stato laico dovrebbe garantire.Ad esistere, dunque, sono sono solo gli individui, perché i gruppi sono costruzioni culturali arbitrarie che dipendono di volta in volta dal criterio di definizione scelto. Ma sarebbe un errore pensare che l’identità dell’individuo sia un’essenza unica e immutabile. Ciascun individuo è di volta in volta una composizione di appartenenze diverse e non di rado contraddittorie che si incrociano e si compongono, tenute insieme dalla narrazione autobiografica cosciente che istituisce quell’equilibrio precario e unico che chiamiamo identità. Quest’ultima, dunque, è multipla, non solo nel senso che è diversa da individuo a individuo, ma anche nel senso che cambia nel corso della vita di uno stesso individuo. L’irriducibile diversità di ciascun individuo, osserva la Sciuto, ha importanti implicazioni sociali e politiche, perché essa invita a valorizzare ciascun soggetto nella sua irripetibilità, che pertanto è sede della universalità dell’essere umano in quanto tale. Da qui l’esigenza di una emancipazione universale sul piano individuale che da un lato si contrapponga al riconoscimento di una identità collettiva che soffoca le istanze dell’identità individuale e dall’altro disinneschi le derive conflittuali all’insegna dell’individualismo e dell’egoismo. L’esistenza e l’unicità dell’individuo è di per sé un appello alla solidarietà e al riconoscimento del valore assoluto di ciascun essere umano e della sua uguaglianza di fronte alla legge, come già suggerito da Kant quando proponeva l’imperativo categorico di trattare ciascun uomo come fine e non come mezzo.
Per un cosmopolitismo non multiculturalista e non comunitaristaSecondo la Sciuto, il punto cruciale sta nel decostruire l’idea che i gruppi culturali possano avere dei diritti. Soggetti di diritto, infatti, possono essere solo gli individui e compito dello Stato è garantirli contro le pressioni dei gruppi a tutti i livelli, da quello familiare (si pensi all’indottrinamento forzato dei bambini) a quello religioso (si pensi alla discriminazione istituzionalizzata delle donne nel mondo cattolico e in quello islamico). Pensare che uno Stato di diritto laico e liberaldemocratico possa riconoscere diritti ai gruppi significa ammettere la possibilità che al suo interno si instauri un infausto pluralismo giuridico, che è una sorta di assurdità logica. Significherebbe, per esempio, che un individuo possa contemporaneamente godere di diritti fondamentali garantiti dallo Stato ed essere sottoposto al regime antidemocratico del un gruppo religioso di appartenenza. Come esempio principale di pluralismo giuridico, la Sciuto fa quello dei tribunali della “sharia” in Inghilterra (e non solo), che in ultima analisi finiscono per sottrarre alle donne quelle libertà civili garantite dal paese in cui vivono. Oppure si pensi al modo in cui vengono educati i bambini nelle famiglie dei fondamentalisti amish, islamici, cattolici, ecc.: fin dove può intervenire lo Stato quando ai bambini, per esempio, viene negato il diritto allo studio? La versione forte e relativista del multiculturalismo che caldeggia il pluralismo giuridico sfocia inevitabilmente in una sorta di razzismo, per cui si dice che è giusto rispettare i costumi oscurantisti di certe culture minoritarie e si sospende la critica basata sui valori democratici e sui diritti umani, che invece dovrebbe avere una portata universale e non limitata semplicemente alla cultura “superiore” che ospita tali minoranze.
In conclusione, la Sciuto mostra la miseria intellettuale e morale di quello che chiama “complesso del colonizzatore”, perché chi si rifiuta di lottare per estendere a tutti gli individui i diritti umani fondamentali sulla base del sospetto che si tratti di una forma mascherata di neocolonialismo giuridico (una clamorosa “fake news”: p. 151) tende ad ignorare che spesso la richiesta di accedere ai diritti umani è partita proprio dalle colonie, mentre i colonizzatori hanno preferito non concedere ai colonizzati le stesse opportunità giuridiche di cui loro stessi godevano. Una fake news disinvoltamente e ipocritamente diffusa anche dalla Chiesa di oggi (in passato pesantemente coinvolta nel colonialismo e nelle conversioni forzate), la quale grida allo scandalo dell’indottrinamento colonialista quando si propone di mandare aiuti economici ai paesi più poveri a condizione che vengano accettati nel contempo programmi di educazione alla sessualità, all’uguaglianza e alla parità di genere (cfr. p. 152). «Il nostro tempo», scrive la Sciuto, «sembra dunque stretto nell’alternativa fra una deriva comunitarista/multiculturalista, da un lato, e un soggettivismo individualista, narcisista ed egocentrico, dall’altro. Due approcci solo apparentemente distanti ma che in realtà condividono un nucleo fondamentale: una sostanziale indifferenza nei confronti del destino dei singoli esseri umani. Per uscire da questa tenaglia è dunque urgente elaborare una prospettiva solidale, laica, libertaria e universalista: perché i diritti, se non sono universali, si chiamano privilegi» (p. 153).
P. s. Una postilla criticaC’è un capoverso, a p. 28, che mi ha lasciato perplesso. Scrive la Sciuto: «Il mondo disincantato, che scopre che non esiste nulla al di là dell’orizzonte finito in cui ci troviamo a vivere, è anche quello che riconduce il senso all’umanità dell’essere umano. Sgombrato finalmente il campo (pubblico) dall’ingombrante presenza di Dio, è l’essere umano il Signore del mondo, ciascun essere umano nella sua universalità. Ed è in questa prospettiva che lo Stato laico recupera un ruolo fondamentale nella promozione di questo nuovo orizzonte etico-politico, allo stesso tempo finito e universale».Come abbiamo visto, per formazione l’autrice del pamphlet si basa molto sulla filosofia kantiana del diritto, e questo la porta a un uso forse un po’ troppo disinvolto della nozione di “universalità”. In questo caso, per esempio, essa è applicata all’essere umano in un modo filosoficamente discutibile, al limite della tenuta logica, come sembra accorgersi lei stessa quando accosta – questa volta in relazione all’orizzonte etico-politico che uno Stato laico deve promuovere – il “finito” e l’”universale”. Cosa è l’”umanità dell’essere umano”? Cosa è la sua “universalità”? E cosa significa che in uno spazio pubblico disincantato e autenticamente laico ciascun essere umano nella sua universalità è “Signore del mondo”? Quest’ultima espressione non comparirà più nel libro e francamente non se ne capisce il senso in un’ottica laica e scientifica. Il suo senso, infatti, è chiaro quasi esclusivamente entro una cornice metafisico-religiosa pre-copernicana, o al massimo kantiano-idealistica. Perché, allora, avventurarsi nell’uso di un’espressione così esagerata sul posto del Sapiens nel mondo così come lo intuiamo oggi alla luce delle nostre conoscenze più avanzate?Alla fine dell’ultima nota del primo capitolo, la Sciuto promette chiarimenti sulla nozione giuridica di universalità nel quinto e ultimo capitolo. E in effetti, come abbiamo visto, la promessa è mantenuta: l’universalità è un concetto giuridico che rimanda al coinvolgimento di tutti gli esseri umani in un rapporto egualitario con la legge. Per il resto, il passo riportato suona troppo appiattito sul lessico di un pensatore la cui antropologia filosofica era costruita su fondamenta cristiane ed era comunque pre-darwiniana, con tutto quello che ciò comporta in termini di plausibilità scientifica.