L’attrice di Bollywood attivista per i diritti delle donne
Esordio controcorrente. Dalla parte delle donne. Uno dei primi personaggi interpretati da Shabana Azmi nel film Ankur, nel 1974, è quello di Laxmi, collaboratrice domestica in un piccolo villaggio indiano. La giovane trova la forza di lasciare il marito sordomuto e intesse un legame segreto con il rampollo di una famiglia di ricchi proprietari terrieri. Amore clandestino, punito per la «colpa» di aver violato le convenzioni, morali e di casta. «Diverse attrici erano state contattate per quella parte ma avevano rifiutato perché il tema era considerato scabroso – racconta la Azmi, classe 1950, alla quale il prossimo febbraio lo Spazio Oberdan di Milano dedicherà una rassegna – . Io non ho avuto timore di affrontarlo e il film è diventato un grande successo, di critica e di pubblico». Da questa scelta, per certi versi scomoda, inizia a delinearsi il profilo della star-attivista. Presidente di ActionAid India e rappresentante del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, impegnata in difesa delle fasce più deboli. Celebrity molto amata, che usa la popolarità per spingersi oltre la patina luccicante delle saghe in salsa Bollywood. Obiettivo: far emergere le mille contraddizioni di un Paese, l’India, nel quale le donne continuano a essere discriminate.
Il cinema può essere uno strumento di sensibilizzazione?
«Ho sempre creduto nel ruolo sociale del cinema e dell’arte. Certo, non basta vedere un film su Gandhi per sposare la causa della nonviolenza. Come un uomo che maltratta la moglie difficilmente cambierà il suo modo di rapportarsi con lei perché colpito da un personaggio o da una storia. E però, anche i piccoli messaggi possono invitare alla riflessione, far nascere qualche domanda su se stessi e sul proprio modo di stare al mondo».
La cronaca, il reportage sociale sono ancora di nicchia nel cinema indiano?
«In India si sfornano tre film al giorno, circa mille ogni anno: il doppio della produzione hollywoodiana. Molti sono film d’autore: penso a quelli della regista Deepa Mehta, con la quale ho girato la trilogia Terra, Acqua e Fuoco e, di recente, I Figli della Mezzanotte, tratto dall’omonimo romanzo di Salman Rushdie. Oppure a quelli di Mira Nair, pluri premiata a Venezia e a Cannes, con la quale l’anno scorso ho girato Il fondamentalista riluttante».
Il connubio melodramma-esotismo è comunque la cifra dominante?
«Bollywood è un’industria cinematografica. La maggior parte dei film è fatta per sfondare ai botteghini e tratta di argomenti popolari, adatti al grande pubblico. Da qualche anno, però, oltre ai balletti e ai canti, sta crescendo l’interesse per i temi sociali, più vicini alla vita quotidiana e che al sogno e alla favola».
La condizione delle donne nelle zone più povere? Subalterne sin dalla nascita, se non uccise come testimonia il numero ancora elevato di feticidi?
«Nelle zone rurali più isolate la condizione femminile può essere ancora molto drammatica. Le figlie sono le prime a dover abbandonare la scuola se la famiglia ha bisogno di forza lavoro. Spesso sono nutrite con il cibo di scarto e, difficilmente, vengono curate. Una bambina è considerata un costo, per crescerla e darla in dote a un uomo. È crudele, ma nelle realtà molto povere l’arrivo di una seconda o una terza figlia è vissuto come una grande sventura per il peso economico che porta con sé»
Come si può intervenire?
«Bisogna puntare sull’istruzione, che deve essere davvero universale aiutando le famiglie nell’acquisto delle uniformi e dei libri. E’ importante anche cambiare la struttura familiare patriarcale, che relega le donne al ruolo esclusivo di mogli e madri. Quando siamo riusciti a creare opportunità di lavoro per le donne, magari attività da fare in casa come servizi di mini catering o di cucito e ricamo, la loro vita è cambiata in modo radicale».
Lavorare sull’autostima è il primo passo verso l’emancipazione?
«Quando le donne hanno cominciato ad acquisire fiducia in se stesse e indipendenza economica anche i maschi della famiglia hanno iniziato a vederle con occhi diversi. Non è stato sempre facile ma, una volta avviato il processo di cambiamento, nessuna è voluta tornare indietro».