Amal Basha: “La mia guerra santa per i diritti delle donne”
Amal Basha dice di non potersi permettere di passare inosservata. La visibilità è la sua guardia del corpo. Nata a Taiz, alle pendici della montagna della Pazienza, nel Sud dello Yemen, è oggi la più nota lobbista per i diritti delle donne del Vicino e Medio Oriente. Fondatrice e presidente del Sisters’ Arab Forum for Human Rights, è stata nominata “donna araba dell’anno” da Takreem, associazione apolitica con base a Beirut il cui scopo primario è quello «di fornire un’immagine avanguardista del mondo arabo» come racconta il fondatore, Ricardo Karam. «Per contrastare gli stereotipi negativi dei media».
Amal Basha il suo premio l’ha ritirato indossando il costume tradizionale yemenita. A dimostrazione che l’accusa che spesso le muovono, «avere un’agenda filo-occidentale» non la sfiora. «Sarei pronta ad allearmi anche con Satana se credesse nella mia causa» dichiara a voce alta questa 52enne che ha collezionato più minacce di morte di un guerrigliero. «Le specificità culturali sono da proteggere, certo, ma è forse difendibile la tradizione che, con la scusa del matrimonio, di fatto autorizza lo stupro di una bambina di 9 anni? E non ditemi che la tradizione è parola di Dio: sono sicura che Dio preferisce la dignità».
Parole come pietre, forse non a Marrakech dove Amal ha ritirato il suo Takreem Award, uno dei 9 riconoscimenti - dalla cultura alla tecnologia, dall’imprenditoria allo sviluppo sostenibile - che celebrano l’eccellenza nel mondo arabo. Ma il peso specifico aumenta quando si passa al meridiano di Sana’a, la capitale yemenita, dove Amal, dopo molto peregrinare, è tornata a vivere.
«È casa mia, ma i miei tre figli ormai vivono fuori. Anche il più piccolo se n’è andato in Svezia. Mi ha detto: “Questa è la tua guerra, non la mia”. Mi ha spezzato il cuore, ma con loro al sicuro io non ho più paura. Il mio secondo figlio era stato investito da un’auto poco tempo prima. Non saprò mai se si è trattato solo di incidente».
Dove inizia la sua storia e la sua ribellione? Da bambina. Sono stata una ribelle precoce, rifiutavo il destino e i compiti previsti per le donne. C’era una biblioteca nella casa di mio padre e io mi ci rifugiavo spesso, leggevo la storia bellissima delle donne yemenite, della regina Arwa al-Sulahyi (la regnante più longeva, ndr) il cui regno fu tra i più prosperi. Lì mi resi conto che le mie ambizioni erano legittime.
Doveva scontrarsi con la tradizione però. La mia famiglia aveva organizzato il mio matrimonio quando avevo 8 anni. A 16 mi sono sposata ed è subito nato il mio primo figlio. Non avevo ancora finito la scuola. Era troppo presto, non ero pronta. Divorziai e la mia famiglia si prese cura di me e del bambino, mentre cominciai a frequentare l’università a Sana’a. Ero brava, vinsi subito una borsa di studio e andai al Cairo. È stato in Egitto che ho iniziato a lavorare per la causa nazionale yemenita, che allora - erano gli anni ’80 - significava soprattutto battersi per la riunificazione del Paese, ancora diviso tra Nord e Sud.