riduzione di orario e di stipendio
«Meglio così che disoccupate», dicono. Un “male minore” che si sta diffondendo, ma che la legge può smascherare di «Dobbiamo ridurre l’orario lavorativo, altrimenti non posso più tenerti in azienda». È la frase che la maggior parte delle donne che oggi in Italia lavora si è sentita dire più spesso. O accetti il part time o perdi il lavoro. «Va bene», ha risposto Luisa, 53 anni, assunta da un’importante azienda di abbigliamento. Ha accettato la riduzione di orario e stipendio, pur sapendo che la mole di lavoro non sarebbe diminuita. «Sulla carta ho un part time, in realtà lavoro full time», racconta. Quello che abbiamo scelto per Luisa è un nome di fantasia, così come per le altre donne che ci hanno raccontato la loro esperienza lavorativa ma che temono di essere licenziate. Per questo motivo, ogni riferimento a cose e persone è puramente casuale.
Sono le forzate del part time, un esercito di lavoratrici in costante aumento anno dopo anno. Solo negli ultimi dieci, il numero di persone che hanno accettato un impiego a orario ridotto è più che raddoppiato (+107,8 per cento, dati Istat). Nel 2008 erano 1,3 milioni, nel 2018 sono diventate 2,8 milioni. E, ancora una volta, sono le donne le più colpite da questo fenomeno: sei su dieci non lavorano a tempo pieno per espressa richiesta del datore di lavoro. «Mi hanno detto che per questioni economiche l’azienda sarebbe stata costretta a rivedere il suo organico. Unica alternativa: ridurre le ore e trasformare il contratto da full time a part time». Nessun demansionamento, nessun cambiamento nella gestione del lavoro, solo meno ore retribuite. Quella raccontata da Luisa è la situazione che nel nostro Paese vive il 19,5 per cento delle lavoratrici (9,8 milioni). «Dopo otto anni di lavoro non mi sarei mai aspettata un trattamento simile», continua Luisa. «In meno di un anno la riduzione di orario ha colpito quasi tutte le mie colleghe». Quando chiedo a Luisa perché non si siano ribellate la sua risposta è netta. «Non potevamo. Se perdi il lavoro a 53 anni chi ti riassume? Vale lo stesso anche per le lavoratrici più giovani, magari appena diventate mamme. Chi può permettersi oggi di rinunciare a un lavoro, in nome di una vertenza sindacale?».
Sebbene la legge fornisca diversi strumenti alle lavoratrici per tutelarsi all’interno del mondo del lavoro, denunciare condizioni di sfruttamento è molto pericoloso. Significa diventare disoccupate. Quasi sempre sono le aziende, le prime a non rispettare le norme. Se fino a pochi anni fa le donne chiedevano il part time per riuscire a seguire meglio i figli e la famiglia, oggi si vedono costrette a subirlo. Per avere uno stipendio. Nel 25 per cento dei casi ha un part time chi non ha trovato un lavoro a tempo pieno. Succede all’80,4 per cento degli uomini e al 60,7 per cento delle donne. E anche in altri Paesi europei la situazione non cambia. Basti pensare che dove l’occupazione femminile è più alta, si raggiungono le percentuali massime anche di occupate part time: 40 per cento in Gran Bretagna, quasi il 50 per cento in Germania e quasi l’80 per cento in Olanda. Un dato, quest’ultimo, che è un’arma a doppio taglio anche per un Paese che sembrerebbe civilissimo.
Per raggiungere l’indipendenza economica, 230.000 donne in Olanda dovrebbero lavorare in media 5 ore in più la settimana. È qui che si registra inoltre una forte distanza retributiva tra uomini e donne, anche a causa del part time femminile. È il cosiddetto gender pay gap, che in Olanda supera il 16 per cento (un dato altissimo) e in Italia raggiunge i 66 giorni: cioè per più di due mesi ogni anno, a causa della disparità salariale, è come se le donne lavorassero gratis. In Europa, l’Islanda ha introdotto una legge valida per combattere la disparità di retribuzione, obbligando le aziende alla parità di stipendi. Una condizione che in Italia la stessa sottosegretaria al ministero dello Sviluppo economico, Alessandra Todde, ha denunciato in un intervento pubblico: «Sono un’ingegnera e sono stata un’amministratrice delegata di una quotata», ha detto. «Guadagnavo il 20 per cento in meno dei miei colleghi maschi ed era considerata una cosa scontata».
Così com’è stato scontato per Giulia firmare il contratto di lavoro part time che le ha proposto l’azienda con cui ha iniziato a lavorare come educatrice per l’infanzia. «Mi sono appena laureata e avevo molta voglia e necessità di trovare un’occupazione». Giulia ha un contratto da 25 ore settimanali, per 600 euro al mese: niente ferie o malattie, niente trattamento di fine rapporto (Tfr). «Ci gestiamo noi, se qualcuna sta male ci sostituiamo a vicenda. Se ci ammaliamo tutte, la struttura resta chiusa». Quando è stata assunta, a Giulia è stato promesso un avanzamento di carriera. «Per ora ho un contratto a tempo determinato e non so se sarà rinnovato. Alcune colleghe che lavorano con me spesso fanno il mio stesso orario ma sono state inquadrate come ausiliarie. Dovrebbero lavorare tre ore al giorno». Per una paga mensile pari a 300 euro.
Le storie come quelle di Luisa e Giulia sono (purtroppo) tantissime, si muovono a macchia d’olio su tutti i settori lavorativi e a più livelli. Vengono colpite dirigenti e operaie, con modalità diverse ma allo stesso scopo: ottenere lavoro sottopagato. Il part time forzato conviene infatti solo alle aziende, che percepiscono agevolazioni e tengono sotto scacco le lavoratrici. «Quando sono rientrata dalla maternità mi hanno proposto di ridurre le ore di lavoro. Dicevano che per me sarebbe stato più semplice seguire mio figlio», racconta Chiara, 38 anni, manager. «Io non volevo. Il mio capo ha iniziato a rendermi la vita lavorativa un inferno. Mi chiedeva di restare oltre l’orario stabilito, con il ricatto psicologico di far gestire ad altri colleghi quello che io avevo sempre fatto. Dopo sei mesi sono stata costretta a chiedere il part time». Chiara avrebbe voluto denunciare e si è rivolta a un avvocato ma la paura di perdere il lavoro l’ha fermata. Di fatto, accettando il part time, chi lavora perde ogni diritto di rivalsa e il datore è nel giusto. Almeno formalmente. «Il mio lavoro dei sogni è finito con una causa che mi ha reso difficilissimo trovare un nuovo impiego», racconta Silvia, 41 anni, specializzata in comunicazione. «Volevo far valere i miei diritti e percepire la retribuzione che mi sarebbe spettata». Per anni Silvia ha lavorato senza fare richieste. Poi sono arrivati i primi licenziamenti “volontari”, la riduzione formale delle ore di lavoro, i giorni di riposo trasformati in giornate di lavoro da casa. «Non ho voluto accettare tutti quei cambiamenti senza chiedere spiegazioni. Mi sono ritrovata in tribunale e adesso che la causa è in corso fatico a trovare un nuovo lavoro. È giusto?». No, non lo è.
L’Italia è agli ultimi posti della graduatoria europea per quanto riguarda l’occupazione femminile. Sono (ancora) le donne quelle meno tutelate e spesso costrette a scegliere tra famiglia e lavoro. Abbiamo chiesto un parere all’avvocato Michela Scafetta, da sempre al fianco delle donne e dei loro diritti.
Cosa stabilisce la legge? La donna è tutelata nella gestione del rapporto di lavoro. La parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve esser assicurata in tutti i settori; compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione. Purtroppo però una cosa è la realtà giuridica e una cosa è quella fattuale.
Una donna mobbizzata cosa può fare? Rivolgersi a un avvocato e magari inviare una prima lettera, scritta di proprio pugno all'azienda, con cui denuncia i soprusi. È utile in fase iniziale non far intuire la presenza di un legale e mantenere sempre un atteggiamento collaborativo con il datore di lavoro.
Come si riconosce il mobbing? Inizia con demansionamento e isolamento sul lavoro, sia a carattere verticale che orizzontale. Una violenza silenziosa che distrugge l’animo del lavoratore e della sua famiglia.
Perché è così in aumento il part time “imposto”? Si parla di questo tipo di part time nel momento in cui si viene assunti a tempo parziale ma poi di fatto si svolge attività lavorativa a tempo pieno. Spesso le donne sono assunte così proprio per pagarle di meno ed evitare che si prendano permessi retribuiti.
Chi denuncia rischia?La legge fornisce tutti gli strumenti a favore dell'emersione del lavoro sommerso. Tuttavia è sempre preferibile non arrivare a portare in tribunale l'azienda e trovare, attraverso la mediazione di un legale che dovrebbe restare il più possibile nell'ombra per evitare l'inasprirsi della situazione, una conciliazione.