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Sibilla Aleramo, la scrittrice che diede voce alle donne

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

“Sole, sole! Quanto sole abbagliante! Tutto scintillava, nel paese dove io giungevo: il mare era una grande fascia argentea, il cielo un infinito riso sul mio capo, un’infinita carezza azzurra allo sguardo che per la prima volta aveva la rivelazione della bellezza del mondo. (…) Entrava ne’ miei polmoni avidi tutta quella libera aria, quell’alito salso: io correvo sotto il sole lungo la spiaggia, affrontavo le onde sulla rena, e mi pareva ad ogni istante di essere per trasformarmi in uno dei grandi uccelli bianchi che radevano il mare e sparivano all’orizzonte”.

“Una donna”, Sibilla Aleramo

Portocivitanova, luglio 1888 – Rina appoggiò la pesante valigia nel fresco ingresso di Palazzo Sforza-Cesarini e respirò a fondo per riprendersi dal lungo viaggio che aveva condotto la sua famiglia in quel luogo di luce e libertà. Il corso principale della cittadina pullulava di robuste signore, uomini ben vestiti ed altri coperti di semplici abiti contadini, una farmacia, un caffè folcloristico e, poco distante, una grande piazza, cuore pulsante di Portocivitanova.

Si guardava attorno lanciando di tanto in tanto sguardi complici a suo padre, con occhi curiosi affamati di esperienza e di stimoli per la sua mente vivace. Cominciava per loro una nuova vita, lontano da Milano e dal freddo del nord. Era l’inizio di una grande avventura.

Marta Felicia Faccio era nata in un caldo giorno d’agosto del 1876 ad Alessandria, figlia di Ambrogio Faccio, un carismatico professore di scienze, ed Ernesta Cottino, casalinga minuta dal carattere riservato tendente alla malinconia. Quando nell’estate del 1888 Ambrogio era stato chiamato a dirigere un’azienda di bottiglie a Portocivitanova, all’epoca piccolo borgo di mare di cui Rina – come tutti la chiamavano – non aveva mai sentito parlare, l’entusiasmo della famiglia nel seguirlo in quella sfida era stato immediato. Così, insieme alle due sorelle e al fratello, Rina era partita con il sorriso sulle labbra e la voglia di rendersi utile in qualunque modo per quel padre che molto amava.

Leggeva negli sguardi della gente di paese il rispetto e l’ammirazione che avevano nei suoi confronti, lo stimava per il fascino che esercitava su chiunque si trovasse a parlare con lui ed anche per il coraggio con il quale aveva accolto un cambiamento di tale portata. Sua madre non lo avrebbe mai fatto. Ernesta si lasciava guidare e restava in silenzio; era un’ombra lontana, con cui non era mai riuscita ad entrare realmente in contatto. A dodici anni, tutti i sogni di Rina coincidevano con quelli del padre ed erano riposti nella fiducia che nutriva per lui. Non v’erano dubbi né timori, il cielo brillava sopra la sua testa dai capelli folti e niente avrebbe potuto minare la sua felicità. 

1946. Con la fronte appoggiata sul finestrino, Sibilla era tentata di alzare le palpebre e sbirciare il ben noto paesaggio, mentre il treno rallentava la sua corsa per far scendere i passeggeri diretti a Portocivitanova. Lei non era tra quelli, impegnata in una campagna referendaria in favore della Repubblica e quindi di corsa, come si era abituata ad essere in quegli ultimi anni, specialmente dopo aver iniziato una relazione con un poeta molto più giovane di lei. Eppure, il richiamo del luogo che aveva custodito i sogni della sua adolescenza, nonché l’ingenuità della ragazzina prima che tutto cambiasse per sempre, era troppo forte.

Socchiuse un occhio titubante: la luce intensa, di un oro vivido, era ancora la stessa, ma il resto era irriconoscibile. Si ricordava un paesuccio di pochi abitanti, la cui costa immacolata accoglieva le caratteristiche casette dei pescatori e dietro, in lontananza, il profilo deciso delle colline fino agli Appennini.

Ora, invece, gli edifici si erano ingranditi e moltiplicati, le attività commerciali erano fiorite dal nulla, la costa stessa era diventata meta di un turismo balneare che l’aveva resa gremita come mai era stata prima. Aprì definitivamente entrambi gli occhi e li fissò sulla città che la salutava dal finestrino del treno: era bella, attiva e moderna, ma della Portocivitanova che l’aveva accolta quasi sessant’anni prima non c’era più nulla. Così come nulla v’era più in lei di quella ragazzina spensierata.

Tante cose erano accadute da allora nella vita di Rina, ormai conosciuta come Sibilla Aleramo: prima c’era stato il tentato suicidio della madre e la successiva reclusione in manicomio, fino alla morte nel 1917; poco dopo aveva dovuto accettare la delusione di scoprire che l’adorato padre era in realtà un traditore e un vigliacco, vederlo abbandonare la loro casa per andare a vivere con l’amante e nel frattempo perdere il lavoro incapace di gestire un’azienda, come pure di comprendere le rivendicazioni operaie; infine, v’era stata la violenza subita da parte di Ulderico Pierangeli, dapprima semplice impiegato nella loro fabbrica e in seguito marito detestato da cui aveva ricevuto percosse, rimproveri, divieti, ma anche un figlio.

Il piccolo Walter era stato la sua gioia per qualche anno, tuttavia nel 1902 le era ormai chiaro che quell’esistenza fatta di doveri e sottomissione, gelosia e silenzio, soprusi e ingiustizie non poteva più accettarla. Così, una mattina aveva riempito con le sue cose la stessa valigia con cui era arrivata a Portocivitanova dodici anni prima e se n’era andata, lasciando dietro di sé una parte di cuore. Per sempre avrebbe pianto intimamente quell’addio al suo bambino, però mai sarebbe tornata indietro, decisa a proseguire nella strada che aveva scelto per lei: quella della libertà, della scrittura, della lotta per i diritti delle donne, e soprattutto quella dell’amore.

Sibilla Aleramo è oggi considerata una delle più importanti scrittrici femminili nell’Italia del Novecento. Poetessa e romanziera, ebbe un enorme successo con la pubblicazione del suo primo libro “Una donna” nel 1906: in queste pagine raccontò l’infanzia, gli anni a Portocivitanova e la scelta drastica di abbandonare marito e figlio per trasferirsi a Roma, dove andò a vivere con l’intellettuale Giovanni Cena.

La sua stessa esistenza, attraverso scandali e pubblicazioni, viaggi e un anticonformismo spinto all’estremo, divenne il simbolo di un femminismo che sarebbe sbocciato in Italia soltanto intorno al 1960, precorrendo così i tempi e ponendo le basi per un nuovo modo di pensare la figura femminile. La sua narrativa sfacciatamente autobiografica, la poesia lirica e la presa di posizione a favore del risveglio della donna in un’epoca di ingiustizie sociali la resero un esempio per molti, un’ispirazione per altri, un personaggio da criticare ferocemente per altri ancora. Di certo, la resero immortale.

In quella che oggi è divenuta Civitanova Marche il poeta Umberto Piersanti ha fondato l’Associazione culturale “Sibilla”, a lei dedicata attraverso una Scuola di Cultura e Scrittura poetica e un Premio – la cui prima edizione fu avviata dall’illustre poeta e saggista Antonio Santori – che quest’anno vedrà la giornata conclusiva il 15 dicembre alle 17 presso la Biblioteca Zavatti. Quest’ultima, attualmente ospitata nella ex Casa del Balilla, si trovava un tempo proprio nel Palazzo Cesarini-Sforza dove la Aleramo visse con la sua famiglia.

Nel 2002 Michele Placido ha diretto il film “Un viaggio chiamato amore”, che racconta la turbolenta e appassionata relazione della scrittrice con il poeta Dino Campana; un altro film che narra la sua storia è “Inganni” (1985) di Luigi Faccini. Molte delle carte, delle lettere e degli scritti prodotti da Sibilla Aleramo, autrice fervida sempre in attività poiché per lei la scrittura coincideva con la vita, sono conservati presso la Fondazione Gramsci di Roma, altri si trovano nell’Archivio di Stato di Firenze. I suoi romanzi e le sue poesie riempiono gli scaffali di tutte le librerie, dando ancora oggi voce alle donne, alla libertà di scelta dell’individuo, all’amore. 

Liberamente ispirato alla figura e alla vita di Sibilla Aleramo

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