Orgoglio Milano, città delle proteste e delle proposte
Milano sul podio per la qualità della vita e tenendo uniti i diritti: l’accoglienza e il lavoro, la crescita e l’ambiente, le libertà e la convivenza. Ma mai vantarsi. Adesso la prova è un sogno collettivo da rendere concreto: abolire la povertà e ogni specie di criminalità, perché Milano oggi fa gola e brutte erbacce possono infiltrarsi.
La fotografia del Sole 24 Ore indica gli anni della svolta con sindaci come Giuliano Pisapia, Beppe Sala e altri, e altre, dei comuni dell’hinterland. E va considerata la larga squadra che nelle diversità ha saputo parlarsi: Università, creativi, lavoratori, imprenditori, professionisti, tra cui tante donne talentuose e tenaci. Insomma ancora una volta a fare la differenza sono civismo, associazioni, persone.
A Palazzo Morando è in corso la mostra sugli anni ’60, un’altra straordinaria stagione di Milano. L’orgoglio della ricostruzione. La città è stata tra le più bombardate fino all’abbattimento, nel 1943, della Scala, reinaugurata nel maggio 1946 con Toscanini. Arrivavano i migranti per trovare lavoro da Puglia, Calabria, Sicilia. Solidarismo e voglia di rinascita erano la risposta ai cartelli con la scritta “non si affitta ai meridionali”.
Milano era la capitale del jazz, del teatro di Strehler e di Fo e Rame, di gallerie d’arte prestigiose. Del miracolo economico, del boom demografico. E subito dopo della partecipazione, come racconta Gaber parlando di libertà. Degli scioperi per i diritti a un salario dignitoso e alla salute. Dei consigli che dalle fabbriche si allargavano ai quartieri e alle scuole. Degli anni del movimento studentesco che all’Arena si incontrava in manifestazione con le tute blu (a dire il vero anche le bianche della Pirelli con la cinta in cuoio e catena).
Delle avanguardie delle donne e delle minigonne. Poi il buio, “la bomba” fascista che voleva la reazione. Pinelli, a cui Beppe ha riconosciuto la verità storica, la strategia della tensione con Brescia, Bologna. Il terrorismo. La crisi della metà degli anni ’70, tra le domeniche a piedi e i miniassegni al posto delle monete.
Nel cinquantesimo anniversario abbiamo riletto il portato di oscurità, di complicità e depistaggi, un filo nero che giace nel sottosuolo del nostro Paese bello e drammaticamente minacciato, fino a Capaci, via D’Amelio, il pestaggio di Cucchi. Dal dopoguerra non c’è stato cambiamento senza la funzione di Milano/Italia, direbbe Gad Lerner. La Chiesa ambrosiana. Le giunte di centrosinistra.
La ripresa degli anni ’80. Mani Pulite col crollo simbolico della cosiddetta prima Repubblica e la spinta ad altre rappresentanze, Lega, Forza Italia. Tornando molto più indietro, a cento anni fa, a due passi dalla Madonnina, in Piazza San Sepolcro, esordiva un manipolo di eversivi, pochi all’inizio, come scrive Antonio Scurati. Il loro capo voleva trasformare la paura in odio e ci è riuscito anche col trasformismo e gli interessi avidi di una parte delle élites e del capitalismo.
Il resto è tutto, la Resistenza e il riscatto. Quel tutto che è cantato con “Bella ciao” in molte piazze del mondo, anche inconsapevolmente, da quelle più dure delle rivolte contro i soprusi a quelle di nuove speranze: Cile, Libano, Hong Kong, Algeria o Parigi. Le nostre: il 25 aprile, People, le donne a Verona, i sindacati. Scrutando Greta. Le Sardine.
Per me, studentessa di allora, la prima fu Piazza Duomo, nella sua solennità immensa e silenziosa, quel 15 dicembre 1969 ai funerali delle vittime della strage. E poi la piazza, nel 1978, con lo sgomento alla notizia del rapimento di Moro. O quella della gioia per la vittoria di Giuliano o, in modo diverso, del gaudio per l’Italia campione del mondo. La piazza che in un gruppetto abbiamo “vigilato” quando Salvini e i nazionalisti credevano di aver già portato l’Italia accanto a Putin e Visegrad.
Leggere che Milano svetta dà un pizzico di orgoglio e fa immediatamente pensare al giorno dopo e che il cambiamento è una parola neutra: il punto è come, con chi, con quali lotte e dove lo vuoi portare. E questa città, con la sua forza inventiva ed economica, accelera e accorcia i passaggi e può piegare in vari modi. Se è così, noi - abitanti per amore o per necessità, passeggeri o restanti - abbiamo la responsabilità di riflettere, di guardare oltre le mura e la giornata. Di sapere che chi ha di più deve dare di più in pensiero, risorse ed etica, perché solo così il cambiamento avrà il segno delle “piazze buone”.
Movimenti e partecipazione sono il ritmo senza il quale nessuna sinistra può vincere nei sentimenti e trasformare bisogni e ansie in una tensione positiva. Nessun governo, né alcun leader, basta a se stesso. Il nostro Paese apprezza ancora riforme avviate negli anni ’70 perché in quel tempo, e prima, era accaduto qualcosa, molto dalle mie parti.
Un Pd, che vorrei costituente, deve capirlo meglio e presto. D’altronde la modernità nasce nell’illuminismo di Verri, Beccaria, nel solidarismo del Manzoni e si ricongiunge a quel Filangeri dell’economia civile a Napoli. Milano e Napoli, due capitali diverse, decisive per l’unità dell’Italia, proiettate verso l’Europa e il Mediterraneo. L’Europa che può rinnovare se stessa se riscopre la radicalità dei diritti umani e il senso del Mediterraneo come dialogo tra religioni e incontro di civiltà.