Google licenzia un'altra dipendente attivista: si batteva per i diritti dei lavoratori
TEMPI duri a Google. Non solo il colosso non è più ai vertici dei posti di lavoro da sogno – o meglio, è ancora molto in alto ma appena fuori dalla top ten stilata da Glassdoor – ma soprattutto i rapporti con alcuni gruppi di dipendenti si fanno sempre più controversi. Soprattutto per l’intreccio fra le infinite attività dell’azienda, che conta oltre 80 mila dipendenti, e la politica. Il gigante di Mountain View ha infatti appena licenziato un’altra attivista: si tratta della 21enne ingegnera Kathryn Spiers e lavorava da due anni nel dipartimento dedicato alla sicurezza di Chrome. Secondo la donna, l’azienda l’avrebbe liquidata perché avrebbe creato un sistema di notifiche nei sistemi interni dei dipendenti per informare i colleghi sui propri diritti sul posto di lavoro. Avrebbe sviluppato quel tool dopo la notizia che Google stava lavorando contro i sindacati e in generale per l’allergia del colosso alle organizzazioni sindacali. Non è un caso isolato: da almeno un anno e mezzo il gigante sta combattendo una battaglia parallela, e intestina, il cui obiettivo ultimo – lo ha spiegato una recente inchiesta di Bloomberg Businessweek – sembrerebbe quella di silenziare le frange più turbolente della propria forza lavoro e al contempo riallacciare i rapporti con il dipartimento della Difesa statunitense. La tesi è che il colosso hi-tech dovrebbe recuperare il terreno perduto dopo una serie di passi indietro, legati anche questi alle pressioni dei dipendenti. Si tratta in particolare del ritiro dai programmi Maven e Jedi, il primo dedicato all’uso dell’intelligenza artificiale per l’analisi delle immagini dei droni per i servizi segreti Usa, il secondo dedicato alla costruzione del nuovo sistema cloud della Difesa: fronti spinosi dai quali Big G ha fatto appunto un passo indietro. Non senza perdere posizioni e crediti nei confronti della Casa Bianca e del Pentagono.
Appena lo scorso novembre il gruppo californiano aveva cacciato altri quattro dipendenti, presto soprannominati i Thanksgiving Four, “per chiare e ripetute violazioni delle politiche di sicurezza sui dati”. Una spiegazione ufficiale che non ha convinto del tutto, conoscendo i soggetti in questione, colpiti secondo alcuni per il loro impegno sindacale e le loro critiche alla società, manifestate tramite l’organizzazione di comizi e incontri con altri lavoratori. I fronti caldi per il gruppo sono davvero molti. Anzitutto la copertura delle molestie sessuali di Andy Rubin, papà di Android, espulso nel 2014 dall’azienda ma liquidato con 90 milioni di dollari – i dettagli vennero fuori solo anni dopo, lo scorso autunno – e che mobilitò decine di migliaia di dipendenti in tutto il mondo. E non solo le sue responsabilità: altre 48 persone sono allontanate per le stesse ragioni senza che se ne sapesse nulla, fino alle comunicazioni di Sundar Pichai, da poco Ceo unico di Alphabet. Poi i rapporti col governo di Donald Trump e con le soluzioni tecnologiche per i confini fra Messico e Stati Uniti o per altre attività militari. Ancora: i colloqui col regime cinese per un motore di ricerca censurato e, appunto, l’ostilità alla tutela sindacale organizzata. Senza contare gli scandali sui provvedimenti del management per chi denuncia i soprusi – molti dipendenti hanno parlato di demansionamenti ingiustificati, mobbing, malattie forzate – e la considerazione per le donne incinte che ha coinvolto una dipendente. “Durante la mia permanenza in Google ho visto le persone passare dalla piena fiducia in Google, dando sempre all’azienda il beneficio del dubbio, all’uso di pretesti da parte del gruppo per bersagliare i dipendenti - ha spiegato Spires a TechCrunch, che su Medium racconta come fosse stata promossa e i giudizi sul suo operato fossero del tutto positivi – la società ha perso la sintonia con i lavoratori e ha ripetutamente intrapreso azioni per ridurre la fiducia e, come ho detto nel mio blog una Google meno trasparente è una Google meno affidabile”. Un caos tale che, lo scorso agosto, ha spinto Mountain View a serrare le file e pubblicare le nuove “community guidelines” rivolte ai proprio dipendenti. Un severo documento interno in cui si indica in modo piuttosto duro ai lavoratori di tenere la bocca chiusa su temi politici o estranei ai propri interessi professionali e di limitarsi a lavorare su ciò per cui sono stati assunti. Ricorda un po’ la Fiat dell’era di Vittorio Valletta: “Qui si lavora, non si fa politica”. “Mentre condividere informazioni e idee con i colleghi aiuta a costruire la comunità, sconvolgere la giornata lavorativa per avviare rabbiosi dibattiti sulla politica o sulle ultime notizie non porta al medesimo risultato” si legge in quelle linee guida. Dove pure Big G ha scritto che “la nostra responsabilità fondamentale è di fare il lavoro per cui siamo stati assunti, non trascorrere il tempo di lavoro in dibattiti su temi che non riguardano i nostri impieghi”. Più chiaro di così. Spiers ha detto di essere stata interrogata per ben tre volte da suoi superiori prima del licenziamento: intendevano capire se volesse organizzare altre attività o se avesse intenzione di danneggiare l’ambiente di lavoro. Interviste “estremamente aggressive e illegali” ha spiegato la donna su Medium. “Non mi hanno lasciato consultarmi con nessuno, neanche con un avvocato, e mi hanno pressato continuamente in modo da incriminarmi e poter incolpare qualsiasi collega con cui avessi parlato dei miei diritti sul posto di lavoro”. Sempre a Techcrunch Google ha invece risposto di aver licenziato la dipendente “per aver abusato di accessi privilegiati e aver modificato alcuni strumenti di sicurezza interna. Una violazione molto seria”. Non solo: il vicepresidente per la privacy e la sicurezza delle infrastrutture, Royal Hansen, ha scritto ai dipendenti spiegando che Spiers aveva creato una serie di pop-up senza alcuna autorizzazione e senza alcuna giustificazione: “La decisione non c’entra nulla con i contenuti, sarebbe stata la medesima se i messaggi avessero affrontato qualsiasi altro argomento” ha scritto Hansen. La donna sta ovviamente preparando una causa a Google, sostenendo non solo che molti altri dipendenti abbiamo modificato i codici di sistemi interni per condividere i propri hobby o lavorare più agevolmente (al contrario, queste iniziative erano ritenute parte della cultura aziendale) ma anche che il suo licenziamento avrebbe come obiettivo “reprimere Spires e altri dipendenti dall’affermare il loro diritto di impegnarsi in attività tutelate e concordate”. Anche i Thanksgiving Four erano molto concentrati sui diversi temi della tutela del lavoro: si occupavano del trattamento dei dipendenti a tempo e dei contractor di Google, dell’ostilità dell’azienda di Page e Brin per le organizzazioni sindacali, del lavoro con le dogane statunitensi e così via. E diversi altri dipendenti, come si spiegava, hanno denunciato negli ultimi mesi ritorsioni per le loro attività: fra queste Meredith Whittaker e Claire Stapleton, organizzatrici delle manifestazioni dell’autunno 2018 contro le molestie. Entrambe hanno in seguito lasciato quello che, una volta, era il posto di lavoro più ambito del pianeta. “Una società che detiene le informazioni personali di miliardi di esistenze è spaventata dal fatto che i suoi dipendenti possano conoscere i propri diritti di organizzazione – ha concluso Spiers – invito chiunque nell’industria del tech a non assegnare più il beneficio del dubbio, a unirsi ai sindacati e a continuare a organizzarsi per proteggere gli utenti, le comunità e noi stessi”.
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Carlo VerdelliABBONATI A REPUBBLICA- Protagonisti:
- andy Rubin
- Kathryn Spiers