dall’Argentina Morales chiama alla resistenza
Il cosiddetto Manifiesto de Buenos Aires, promosso da Evo insieme a dirigenti del Movimiento al Socialismo (Mas), tra i quali il cocalero Andrónico Rodríguez, e ad esponenti delle organizzazioni popolari, condanna il colpo di stato e lo definisce come una cospirazione della destra, dei comitati civici e di gruppi paramilitari con il sostegno dell’Organizzazione degli stati americani (Osa). “Il gobierno de facto massacra il popolo boliviano”, denuncia il Manifesto, insistendo sul carattere dittatoriale del regime di Añez, che vieta la libertà di espressione e perseguita i sostenitori di Morales.
A testimonianza di quanto afferma il Manifiesto de Buenos Aires i casi del giornalista Sebastián Moro e di alcuni membri del governo del Mas che hanno chiesto asilo all’ambasciata messicana a La Paz, dove si trovano attualmente.
Moro, giornalista argentino, è stato ucciso il giorno prima del colpo di stato del 10 novembre scorso. Corrispondente in Bolivia per Prensa Rural, organo della Confederación Sindical Única de Trabajadores Campesinos de Bolivia, il redattore fu trovato agonizzante, a seguito di una serie di colpi ricevuti, senza il suo taccuino, il suo registratore ed il giubbotto che lo contraddistingueva come giornalista. Il reporter è stato ucciso per la sua vicinanza al governo del Mas, come del resto era accaduto, il giorno prima, ad altri giornalisti picchiati dalle squadracce fasciste impegnate a seminare il terrore in tutto il paese. Per la famiglia di Moro il corrispondente di Prensa Rural è stato ucciso in quanto ritenuto un “nemico” dall’estrema destra boliviana. Di fronte alle denunce della Commissione interamericana per i diritti umani, nessun commento da parte dell’attuale governo golpista che ha preso possesso di Palacio Quemado.
Rimangono per ora bloccati all’interno dell’ambasciata messicana a La Paz, che ha concesso loro asilo, gli ex ministri di Morales Juan Ramón Quintana, Hugo Moldiz e Raúl García Linera, fratello dell’ex vicepresidente Alvaro García Linera. Su tutti loro pendono le accuse di frode elettorale, terrorismo e sedizione contro il cosiddetto “governo di transizione”, ovviamente senza alcuna prova. Finora il governo boliviano de facto ha negato dei salvacondotti ai tre, come del resto agli ex ministri di Difesa, Giustizia e Miniere, Javier Zavaleta, Héctor Arce e Cesar Navarro, anch’essi nell’ambasciata messicana assieme all’ex governatore di Oruro Victor Hugo Vázquez.
In vista delle elezioni che il governo della presidenta Jeanine Añez dovrebbe concedere tra i mesi di marzo e aprile 2020, Andrónico Rodríguez pare essere il prescelto, dallo stesso Morales, principale coordinatore della campagna presidenziale del Mas, come eventuale candidato a Palacio Quemado. Rodríguez, giovane di 30 anni, si identifica pienamente nel Manifiesto de Buenos Aires, che definisce il colpo di stato, a cui è seguito l’immediato riallacciamento delle relazioni diplomatiche con gli Stati uniti, come un vero e proprio attentato non solo alla sovranità boliviana, ma anche all’integrazionismo latinoamericano.
Tuttavia, la situazione del Mas, e dello stesso Evo Morales, resta molto difficile. Jeanine Añez ha fatto capire che a breve potrebbe essere emesso un ordine di cattura contro l’ex presidente, ritenuto necessario per “tutelare la libertà e la democrazia nel paese”. Non solo. Evo è già stato denunciato, di fronte alla Corte penale internazione dell’Aia con la paradossale accusa di delitti contro l’umanità, nonostante risultino con evidenza le responsabilità del gobierno de facto nei massacri e nella repressione a seguito del colpo di stato, caratterizzato da morti e feriti.
Lo stesso Manifiesto de Buenos Aires, invitando Onu, Unione europea, Mercosur e Commissione interamericana per i diritti umani ad accompagnare il processo elettorale che si terrà la prossima primavera, ha richiamato l’attenzione sull’attacco dei golpisti allo stato plurinazionale e laico, appellandosi alle organizzazioni sociali boliviane affinché difendano le conquiste sociali e politiche della rivoluzione boliviana, i diritti delle comunità indigene, delle donne e i progetti di sviluppo urbano e rurale.
Il Manifesto si chiude all’insegna dello slogan Resistir, persistir e insistir, ma la Patria Grande, mai come adesso, si trova costretta a fare i conti con forze ostili e nemiche.