Sudan, un anno di proteste. E i diritti umani?
A un anno dallo scoppio delle proteste in Sudan che hanno portato alla deposizione del presidente Omar al Bashir l’11 aprile 2019, le nuove autorità di transizione devono essere all’altezza delle speranze e delle aspettative del popolo sudanese. Questo è quanto ha dichiarato oggi Amnesty International.
“A un anno dall’inizio delle proteste contro l’aumento vertiginoso dei prezzi del cibo che ha portato alla fine dei trent’anni di regime di Al-Bashir, il popolo sudanese può festeggiare per il risultato ottenuto dalla sua azione collettiva che ha messo fine a una repressione asfissiante e ha riacceso le speranze per un Sudan migliore”, ha dichiarato Seif Magango, vice direttore di Amnesty International per l’Africa orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi laghi.
“Le autorità di transizione devono rispettare gli impegni presi per ripristinare lo stato di diritto e proteggere i diritti umani. Il popolo sudanese non merita niente di meno”.
Le speranze adesso risiedono interamente nelle autorità di transizione guidate dal primo ministro Abdullah Hamdok e sono garantite dalla Carta Costituzionale del periodo di transizione, che contiene anche la Carta dei Diritti più completa del paese.
Il governo come passo avanti ha abrogato le leggi sull’ordine pubblico a novembre 2019, mettendo fine a un’era di vergognose violazioni principalmente dei diritti e libertà delle donne.
“Il primo ministro Hamdok porta sulle spalle una responsabilità grande come le aspirazioni del popolo sudanese che ha sofferto decenni di gravi violazioni dei diritti umani e crimini riconosciuti dal diritto internazionale, quali genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il diritto internazionale sancisce il diritto delle vittime alla verità, alla giustizia e alla riparazione”, ha aggiunto Seif Magango.
Il governo deve affrontare la responsabilità di questi crimini in maniera propositiva, anche ricostruendo la credibilità e la capacità del sistema giudiziario di indagare e perseguire i crimini in maniera esaustiva ed efficace.
Inoltre, il diritto internazionale prevede che il governo consegni Omar al Bashir alla Corte Penale Internazionale, secondo i mandati di arresto emessi nei suoi confronti per i crimini commessi in Darfur tra il 2003 e il 2010.
Sebbene la recente nomina di un nuovo Procuratore Generale e capo della magistratura rappresenti una speranza che l’accertamento delle responsabilità sarà una priorità per le autorità di transizione, la riuscita dell’azione legale nei confronti di coloro che saranno giudicati responsabili per gravi violazioni dei diritti umani aumenterebbe incredibilmente la fiducia nel sistema giudiziario nazionale.
Attualmente, la procura sudanese ha svolto indagini e un processo solo in un caso sui 185 di persone rimaste uccise durante le proteste contro il governo nel settembre del 2013. In questo unico caso, l’indiziato è stato alla fine assolto per insufficienza di prove.
Tra il dicembre 2018 e l’11 aprile 2019, in Sudan almeno 77 dimostranti sono stati uccisi e centinaia sono rimasti feriti per l’intervento delle forze di sicurezza. Il 3 giugno, le forze di sicurezza paramilitari conosciute con il nome di Forze di Supporto Rapido (Rsf), hanno brutalmente disperso un imponente sit-in a Khartoum con pallottole vere e gas lacrimogeno, uccidendo più di 100 persone e ferendone almeno altre 700.
“Le nuove autorità sudanesi devono garantire che i membri delle forze di sicurezza che hanno commesso crimini orribili o fatto uso eccessivo di forza nei confronti dei manifestanti siano giudicati in processi giusti senza ricorrere alla pena di morte,” ha dichiarato Seif Magango.
“Il popolo sudanese ha affrontato pallottole vere, gas lacrimogeno, pestaggi brutali e trattamenti umilianti per mesi perché credeva nella possibilità di un futuro migliore; ora è giunto il momento che le autorità di transizione trasformino queste speranze in realtà” ha concluso.
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