Supercoppa Italiana, Juventus-Lazio: la cronaca che non leggerete dall'Arabia Saudita
Alle 17:45 si è giocata la finale di Supercoppa Italiana tra Juventus e Lazio a Riyad, in Arabia Saudita, che ha ospitato per il secondo anno consecutivo la competizione rispettando il lucroso accordo da 21 milioni di euro firmato con la Lega Calcio per i prossimi 5 anni. Una sfida tanto attesa nell’ambiente, che ha sfruttato l’ennesimo evento sportivo per promuoversi a livello mediatico e nascondere alle telecamere di tutto il mondo la vera realtà di questo Paese: numerosi dissidenti e difensori dei diritti umani rinchiusi in carcere, decine di decapitazioni mensili in piazza e le bombe con cui si sta devastando lo Yemen da quattro anni e mezzo.
Nel clima falsamente festoso e moderno dello Stadio dell’Università Re Sa’ud di Riyad, scendono in campo le squadre guidate dai propri capitani, ignari (o forse no) di quanto accade tutti i giorni fuori dall’impianto, in una realtà mistificata per accreditare l’immagine di un Paese orientato verso delle riforme interne. Dopo aver controllato che tutti siano con gli occhi incollati sul terreno di gioco, dimenticando le drammatiche vicende degli scorsi mesi raccolte da attivisti e ONG, l’arbitro fischia e dà il via all’ennesimo caso di “sportwashing”, dopo il Gran Premio di Formula E, la finale di Tennis Cup Diriyah e la sfida decisiva per il titolo di campione del mondo di pugilato tra Anthony Joshua e Andy Ruiz Jr.
La prima vicenda arriva nel 2012, con Ali al-Nimr che viene arrestato e condannato a morte da minorenne per aver preso parte a una protesta pacifica, mentre Issa al-Hamid si mette in mostra per essere stato co-fondatore dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici, condannato a 9 anni di carcere nel 2017 assieme al collega Abulaziz al-Shubaily, colpevole di aver pure trasmesso informazioni ad Amnesty International. La gara prosegue, anche se per il mondo occidentale non sembra molto interessante: Loujain al-Hathloul è ancora detenuta in carcere dal 15 maggio 2018, dove ha subito anche violenze sessuali, per essere un’attivista per i diritti delle donne, tra le protagoniste di campagne importanti come il diritto alla guida, l’uguaglianza delle donne e l’abolizione del sistema del tutore maschile. Non va meglio a Nassima al-Sada, scrittrice e attivista per i diritti delle donne ancora in carcere dal luglio 2018, e a Israa al-Ghomgham, arrestata invece nel 2015 per aver istigato delle proteste contro un governo che obbliga al silenzio chi non la pensa come lui.
Nella ripresa, prova subito a farsi vedere Raif Badawi, blogger di un forum online condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate, già protagonista nella finale di Gedda dello scorso anno, città in cui ha subito 50 di quelle frustate nel 2015. Inutile il tentativo di difenderlo da parte di Waleed Abu al-Kheir, condannato a sua volta a 15 anni di carcere per aver rotto il vincolo di obbedienza nei confronti della casa regnante. La sorella di Badawi, Samar, viene arrestata a sua volta per essere stata attivista per i diritti delle donne, ma ancora non si è avviato il processo. Dalla sfida, però, tutti si attendono una svolta per il caso Khashoggi, ma nessuno ne parla più: assassinato nel consolato dell’Arabia Saudita in Turchia, il giornalista che tanto dava fastidio al governo saudita sembrava aver risvegliato i politici di tutto il mondo davanti all’evidenza dell’inesistenza di una libertà di pensiero ed espressione in quel Paese, ma poi anche questa storia è finita nel dimenticatoio. E così, la sfida arriva alla sua conclusione: non vince nessuno, se non l’Arabia Saudita che per l’ennesima volta mostra la sua finta vetrina di modernità, ricchezza e tecnologia, mentre tutti noi ci rendiamo complici, anche stando soltanto davanti alla televisione, dell’ennesimo governo oppressivo “salvato” grazie alla prosperità economica dei propri magnati.