Parla la first lady dell’Afghanistan:«Pace impossibile senza le donne»
Il segnale che qualcosa era cambiato è arrivato un anno fa, nel giorno dell’insediamento del presidente Ashraf Ghani. «Ringrazio la mia partner e sposa per il sostegno dato a me e all’Afghanistan», disse l’ex esperto della Banca mondiale. Era la prima volta che un neopresidente afghano presentava così la sua first lady (in 10 anni il predecessore Karzai non era mai apparso in pubblico con la consorte). Da allora la 67enne Rula Ghani, chiamata in pubblico sempre col nome afghano Bibi Gul («bibi» significa signora, «gul» fiore), è attenta ai diritti delle donne, si occupa dei problemi degli sfollati. Non senza critiche: è libanese, è cristiana. C’è chi l’accusa di voler «convertire le afghane al cristianesimo». C’è chi sottolinea la sua cittadinanza (anche) americana. La first lady, che ha parlato al Corriere alla vigilia del suo viaggio a Rimini dopodomani per la XXXVI edizione del «Meeting per l’amicizia fra i popoli», sembra camminare su un filo sottile, cercando di non alienare i conservatori ma tentando di ispirare una generazione nuova di donne afghane.
La morte di Farkhunda, massacrata dalla folla a marzo con l’accusa d’aver bruciato il Corano, ha sconvolto molti. I suoi assassini non erano estremisti religiosi ma gente comune. Perché così tanti hanno creduto a delle voci e commesso una violenza così estrema?«Conosco la famiglia di Farkhunda. Sono venuti a parlarmi. Sono assistiti da quattro avvocati pro-bono e dal consulente legale presidenziale. È un caso inquietante. Usciamo da 23 anni di conflitti e di guerra civile, la violenza non è sparita dalla società: coesiste con i tentativi di applicare la legge. La gente ha dimenticato i valori, l’etica, l’umanità. Ma non è così solo in Afghanistan».
Sono necessarie leggi migliori per prevenire la violenza contro le donne?«Noi abbiamo già buone leggi sulla violenza contro le donne e pure sull’uguaglianza nel posto di lavoro. Inoltre la costituzione difende l’uguaglianza tra tutti gli afghani. Il problema è che le leggi non sempre vengono applicate perché accanto allo stato di diritto c’è uno stato di violenza, e troppe armi in troppe zone del Paese».
Lei si considera una femminista?«Mi occupo di donne e anche di uomini, bambini, esseri umani. Poiché il termine “femminista” significa cose diverse per diverse persone, preferisco parlare di esseri umani».
Lei ha lamentato che i media presentano le afghane come se fossero deboli. Abbiamo intervistato un’afghana coraggiosa, Niloofar Rahmani, prima pilota donna post talebani: ma riceve minacce, sia dai talebani che da membri della sua famiglia allargata. Cosa può fare il governo?«Anche Niloofar Rahmani è venuta a confidarsi da me. Credo che i media stiano peggiorando la situazione, sarebbe meglio che ci fossero meno articoli su di lei. Esistono dei modi per garantirle maggiore sicurezza sul lavoro. Della famiglia allargata non mi preoccupo, non l’hanno ostracizzata».
A marzo l’artista Kubra Khademi ha indossato un’armatura per le strade di Kabul per denunciare le molestie subite dalle donne. Anche lei ha ricevuto minacce di morte.«Di minacce di morte se ne ricevono a bizzeffe in Afghanistan. Non voglio dire che non le prendo sul serio, ma se fai un’azione intellettualmente provocatoria come quella, devi aspettarti una reazione forte».
Alcune donne afghane sono state coinvolte nei colloqui di pace con i talebani a Oslo. Avranno un ruolo importante?«Qualsiasi negoziato di pace finale non potrà non includere il contributo di metà della società. Ma non so se i contatti preliminari di Oslo porteranno lontano, non sono coinvolta».
Ha studiato giornalismo alla Columbia University, sua figlia vive a Brooklyn. Cosa rappresenta l’America per lei?«Quell’anno alla Columbia fu molto bello, ero già una giornalista ma volevo un diploma Usa per poter lavorare. Ma i figli erano piccoli, io e mio marito eravamo soli, così ho deciso di dedicarmi alla loro istruzione. Cosa rappresenta l’America? Credo che ognuno di noi abbia identità multiple che si arricchiscono l’una con l’altra».
Lei è stata paragonata alla regina Soraya, che si tolse il velo nel 1920, cui qualcuno dà la colpa per l’esilio suo e del re nel ‘29. Si sente simile a lei in qualche modo?«La regina Soraya era anche ministra dell’Istruzione, ha costruito un sistema educativo dal quale mio marito ha tratto grande beneficio ma che è stato distrutto nella guerra civile. Ma ha vissuto 80 anni fa e la situazione è cambiata. Voglio aiutare anch’io l’Afghanistan ma non sono così ardita da definirmi un’altra Regina Soraya».
È favorevole all’uso del burqa in Afghanistan?«Chiunque abbia portato il burqa, sa che è davvero scomodo. Questo è tutto quello che dirò».