Donne a caccia di un buon partito - Attualità - D
Le “streghe” son tornate. E vogliono far tremare i Parlamenti europei. Dalla Svezia alla Gran Bretagna, dalla Norvegia alla Spagna, è tutto un fiorire di partiti femministi. In qualche caso sono avventure elettorali piuttosto velleitarie, in qualche altro, come in Svezia, proprio no. Tutti, a leggere i programmi, vogliono semplicemente la stessa cosa: che le donne siano trattate come gli uomini. D’altronde, secondo gli ultimi dati Eurostat, nell’Ue guadagnano il 16,4 per cento in meno degli uomini (che rappresentano due terzi dei manager) e secondo l’Inter-Parliamentary Union sono solo il 25,5 per cento di deputati e senatori. Ecco allora che a ottobre nel Regno Unito la comica della Bbc Sandi Toksvig, insieme alle giornaliste Sophie Walker e Catherine Mayer, ha lanciato lo Women’s Equality Party. Toksvig, padre danese e madre britannica, ha 57 anni, si è laureata a Cambridge e, dopo un decennio alla radio, da quest’anno condurrà, sempre sulla Bbc, il popolare quiz show televisivo QI. Lesbica, dopo il coming out del 1994 - che le provocò minacce di morte e il disprezzo dei tabloid - è diventata madre adottiva dei tre figli che la sua compagna ha avuto per inseminazione artificiale. Ma perché la Gran Bretagna - regno di storiche regine, che dal 1979 al 1990 è stato guidato da una donna, Margaret Thatcher - avrebbe bisogno di un partito femminista? «Servirebbe ovunque, perché nessun governo ha raggiunto la parità di genere», ci risponde da Londra la cofondatrice Catherine Mayer, 54 anni, ex corrispondente di Time e biografa del principe Carlo: «Magari il Regno Unito è messo un po’ meglio dell’Italia, ma tutti sono danneggiati dall’incapacità di sfruttare in economia e in politica il grande potenziale messo a disposizione dalla loro popolazione femminile».Cathrine Linn Kristiansen, giovane esponente del Feministisk Initiativ, Oslo.
In un paese con una legge elettorale fortemente maggioritaria, tentativi come quello dello Women’s Equality Party non sembrano però solo destinati all’insuccesso, ma anche a togliere voti a quei partiti di sinistra che storicamente si battono proprio per i diritti delle donne. Mayer fa però spallucce: «Che in giro ci sia fame per un progetto come il nostro lo dimostra la velocità della nostra crescita. A marzo non eravamo che un’idea, oggi abbiamo già 45mila membri e più di 70 sezioni in tutta la Gran Bretagna». Nel Regno Unito, d’altronde, le donne sono solo il 25 per cento dei giudici, il 29 per cento dei deputati, meno del 10 per cento dei manager delle prime cento aziende, e guadagnano un quinto in meno degli uomini. La lotta al gender pay gap figura non a caso al primo dei 12 punti del programma dello Women’s Equality Party, seguita da un ampliamento del sostegno per i servizi all’infanzia e per i congedi parentali. Il loro obiettivo, più in generale, è far emergere sempre il punto di vista delle donne, anche in politica estera («Le bombe uccidono le donne e i bambini tre volte più degli uomini») o in quella migratoria («Dalla patria fino ai campi profughi, le siriane sono inseguite dalla violenza dei loro uomini»). Su questi temi i partiti tradizionali non hanno evidentemente fatto abbastanza ed è per questo, osserva Mayer, che serve una formazione femminista. Mayer ha ammesso che un modello, paradossalmente, potrebbe ritrovarsi in quanto è riuscito a fare a destra l’Ukip del controverso Nigel Farage, che ha saputo porre chiassosamente al centro del dibattito i propri temi, come il no all’immigrazione e all’Ue, e ha spinto a destra tutti i partiti rivali.
Pochi gli eletti in patria, è vero, ma al Parlamento europeo, grazie al sistema proporzionale, ha piazzato ben 22 rappresentanti. Proprio lì, tra Bruxelles e Strasburgo, siede anche il simbolo delle nuove femministe. È la svedese Soraya Post. Nata 59 anni fa a Göteborg, è stata eletta nel 2014 grazie all’exploit del suo partito, Feminist Initiative, che ha raggiunto il 5,3 per cento dei voti dopo dieci anni di battaglie che gli erano valsi tutt’al più qualche consigliere locale, nonostante il sostegno finanziario anche di Jane Fonda e dell’ex Abba Benny Andersson. Feminist Initiative ha toni più radicali, meno borghesi, e pone di più l’accento sulla lotta al razzismo e al fascismo. Soraya Post è d’altronde un testimonial perfetto da questo punto di vista. È infatti una rom figlia di un immigrato tedesco ebreo. Nella vita ha venduto hot dog, ha fatto l’insegnante, ma soprattutto si è occupata di rom e minoranze nella contea di Göteborg, dove ha aiutato peraltro sua madre a ottenere 18mila euro di risarcimento dallo Stato per essere stata costretta dagli assistenti sociali prima ad abortire e poi a sterilizzarsi. «Il nostro partito, che ha anche uomini militanti, si batte per aiutare le donne a conciliare lavoro e famiglia, e per migliorare la vita delle migranti, delle rifugiate e delle minoranze, vittime di razzismo e sessismo anche nei nostri paesi “sviluppati”», ci racconta Soraya Post: «Oggi in Europa il femminismo è più forte di ieri, ma si sono rafforzati anche i movimento contrari. Se siamo contente che ci siano donne ai vertici dell’estrema destra, come Marine Le Pen? No, è un fenomeno che permette a quelle forze di promuovere politiche ancora più dure contro i gruppi marginalizzati».Feminist Initiative sta intanto facendo scuola. Si attribuisce il merito di aver ispirato la “politica estera femminista” del governo svedese (definizione usata dallo stesso ministro degli esteri Margot Wallström per spiegare il suo coraggioso no alla vendita di armi alla misogina Arabia Saudita), e in Norvegia, Finlandia e Danimarca ha lanciato sue versioni locali, con lo stesso nome e lo stesso simbolo. Questi partiti nascono perlopiù in Paesi protestanti del Nord Europa, dove le donne hanno già saputo conquistare i loro diritti e i loro spazi. Eppure anche lì c’è ancora del lavoro da fare, se è vero che persino nella luminosissima Svezia si è sentito il bisogno di distribuire a ogni 16enne il libro di Chimamanda Ngozi Adichie Dovremmo essere tutti femministi. Qualcosa però si muove anche più a sud. In due Paesi cattolici come la Polonia e la Spagna, Feminist Initiative sta collaborando al lancio di formazioni gemellate, anche se alle elezioni spagnole del 20 dicembre Iniciativa Feminista ha ottenuto ancora risultati “da prefisso telefonico”. «Nella primavera del 2015 siamo state anche a Genova, Torino e Imola», aggiunge Soraya: «Abbiamo avuto l’impressione che in Italia ci sia molta vivacità intellettuale nel campo femminista, ma nessun movimento che sappia connettere queste iniziative». Le urne non saranno sempre benevole, ma da Londra a Oslo, da Stoccolma a Madrid queste donne stanno formando una nuova generazione di femministe. Nei teatri e sui social network discutono di tutto, portando il loro punto di vista su ogni tema dell’attualità, dalle violenze del capodanno di Colonia fino al ruolo he ha avuto David Bowie nell’abbattimento degli stereotipi di genere. Piacciano o no, sono una rete transnazionale che cresce. Una nuova voce per le donne d’Europa.Il passo lento dell’Italia E in Italia? Perché ad esempio non nacque un partito femminista dopo il successo, nel 2011, di “Se non ora quando”? «Quel movimento fu caratterizzato da una protesta trasversale verso un modo di concepire l’immagine della donna nel discorso pubblico, ma non riuscì ad andare molto oltre la dimensione della piazza», risponde Donatella Campus, docente di Scienza Politica all’Università di Bologna ed esperta di leadership femminile: «Forse un movimento meno eterogeneo, con una visione più articolata, potrebbe dar vita a un partito e promuovere un’agenda contro la discriminazione. In Italia negli ultimi anni è stato fatto molto. Più donne in Parlamento, più ministri, l’introduzione delle quote o altre misure di azione positiva a livello legislativo, ma c’è ancora strada da fare». Quanto all’Europa, Campus vede bene anche l’emergere di leader di destra come Marine Le Pen: «Manda un messaggio rilevante in un Paese come la Francia dove le donne in politica hanno dovuto affrontare pregiudizi e stereotipi negativi». D.C.P.