Arabia Saudita, ecco perché il Paese ora vuole puntare sulle donne
Il Paese sta varando una serie di leggi per una maggiore integrazione femminile sul lavoro. Tutto dipende dal prezzo del greggio crollato ai minimi termini e una politica sociale ormai non più sostenibile.
In Arabia Saudita c’è un legame diretto tra costo del petrolio e… diritti delle donne. Un connubio davvero singolare. Soprattutto se arriva da un Paese ultra conservatore dove circa 5,8 milioni di donne non contribuiscono alla forza lavoro. Eppure qualcosa sembra sul punto di cambiare. L’Ufficio nazionale delle statistiche ha infatti consigliato al governo di ridurre questo divario «per ottenere un equilibrio economico, e risolvere il problema della disoccupazione».
LE RIFORMEUn tasto dolente che non ha lasciato indifferente neanche la famiglia reale saudita. A maggio 2016, Mohammed bin Salman, il trentenne figlio del re, ha presentato un piano di riforme economiche pensate apposta per risollevare le sorti di un Paese che sino a non molto tempo fa basava tutta la propria ricchezza sul petrolio. Ed ecco che il ministero del Lavoro e dello Sviluppo sociale ha dato il via a una serie di interventi per varare un piano di maggiore inclusione delle donne nel mercato del lavoro.
IL CAMBIAMENTOIl nuovo piano economico in rosa arriva nel momento di maggiore apertura della storia dell’Arabia Saudita. Un’apertura che ha visto l’allentamento delle restrizioni sociali (su tutte quelle sul voto) nei confronti delle donne. Almeno secondo Yu-Ming Liou e Paul Musgrave, autori di uno studio sui diritti femminili nel Paese pubblicato sul Washington Post. È vero, si tratta di piccoli passi, ma comunque fondamentali per una maggiore liberalizzazione dei costumi.
PERCHÉ MENO DIRITTI ALLE DONNESecondo i due studiosi, le politiche antisociali sono «una costosa e visibile misura della fedeltà» dei governanti agli alleati che nel caso dell’Arabia Saudita è, sin dal XVIII secolo, il potente clero wahhabita. «Le rendite derivate dalle risorse garantiscono ai governanti di permettersi queste politiche, che non sarebbero praticabili in regimi basati sulla tassazione. Restringere l’autonomia delle donne è parte di una strategia di governo autocratico in autocrazie ricche di risorse. Utilizzando prove quantitative, dimostriamo che le variazioni nell’autonomia delle donne sono correlate a una variazione delle rendite petrolifere pro-capite», si legge sulle colonne del Washington Post. Eppure oggi, secondo gli autori dello studio, i governanti non possono più permettersi il mantenimento di alcune delle restrizioni sociali a lungo imposte.
COLPA DEL PETROLIOTutto risiederebbe nel prezzo del petrolio che, dopo aver toccato il minimo storico dei 30 dollari a barile, è risalito senza però più toccare i picchi degli Anni ’90. Da qui l’idea di investire in altri settori e, perché no, affidarli al lavoro subordinato femminile. Del resto secondo uno studio del 2012 fatto dalla Oxford Strategic Consulting, se il 40% delle donne lavorasse, in Arabia Saudita il Pil aumenterebbe di quasi 17 miliardi di dollari l’anno.