Che fine faranno le donne che si tolgono il burkini?
Parlano tutti del burkini, ma non di cosa sarà delle donne che vogliamo spingere a levarselo
A un certo punto ho dovuto farmi anch’io un’opinione sul burkini. Un po’ perché iniziavo a sentirmi esclusa, un po’ perché la verità è che l’argomento è interessante. È vero, la polemica in sé è pretestuosa e i social network finiscono per trasformare tutto in un’amplificata chiacchiera da bar, ragion per cui scatta il rigetto, ma la questione in sé e significativa e il dibattito sociale, quando si parla di trasformazioni culturali, è indispensabile.
Se non avevo un’opinione, quindi, non era perché non ritenessi il tema rilevante, al contrario. Riconoscendone l’importanza e la complessità, volevo leggere punti di vista esaustivi diversi tra loro, che mi aiutassero a farmi un’idea ponderata, anziché di pancia. Ma il problema, fin da subito, è stata la strumentalizzazione. Non avevo voglia – anzi no, la forza – di perdere il mio tempo ascoltando persone che tanto per cambiare avrebbero usato il corpo delle donne come pretesto per fare propaganda ideologica e politica.
E infatti. Appena decido che devo iniziare a informarmi, subito Google (il mezzo democratico per eccellenza) mi sottopone un articolo de La Stampa in cui il Capogruppo leghista della Camera Massimiliano Fedrighi afferma che permettere l’uso del burkini nelle spiagge “significa piegarsi ai fondamentalisti, svendere la nostra cultura”. Quale cultura, quella che un mese fa mi ha chiesto perché uso gli shorts se sembro uscita da un quadro di Botero?
Mi sono ben guardata dall’approfondire il punto di vista di Salvini (il suo social media manager riesce a trovargliene uno su tutto, è incredibile), che si erge a difensore delle donne venti giorni dopo aver dato della bombola gonfiabile alla Boldrini.
Nel mentre, Angelino Alfano dichiara ai microfoni di Rtl che in Italia c’è libertà di culto e bisogna evitare “provocazioni su questioni che non investono l’ordine pubblico, realizzate come atto ideologico e che possono apparire come provocazioni che possono attirare reazioni violente”. Ecco, quando Alfano sembra il più ragionevole del mazzo, è ora di migrare altrove.
Mi rivolgo allora a un articolo esaustivo di Le Monde (tradotto da Internazionale). Qui apprendo che la polemica sul burkini è nata da un’ordinanza municipale del comune di Cannes, che vieta di indossare abiti religiosi in spiaggia. Scopro anche che il burkini è stato inventato da Aheda Zanetti, un’australiana di origine libanese, che l’ha ideato per consentire alle donne musulmane di essere libere nei movimenti praticando sport, conservando il pudore religioso. Uno strumento di emancipazione, insomma, come furono per noi i pantaloni.
Tra i vari “ostentazione“, “la nostra cultura“, “a casa nostra“, questa è la prima volta che sento parlare dei bisogni delle donne.
La consigliera comunale di Milano del Pd Sumaya Abdel Qader ha raccontato all’Huffingthon Post che lei per coerenza con il hijab indossa anche il burkini, che le piace e non la limita. Lei però muove dal presupposto della libera scelta, che sarebbe superficiale dare per scontata. A l’Espresso, l’attivista per i diritti delle donne Lorella Zanardo dice che “Dobbiamo avere rispetto degli usi e dei costumi di chi viene da un’altra cultura, ma dobbiamo mostrare alle nostre compagne immigrate i risultati delle nostre lotte, che un’altra società, più libera, è possibile, e che il burkini è una schiavitù”.
A questa intervista seguono molte risposte, la più lucida probabilmente quella del blog Mazzetta, che riprende in particolare la questione dello hijab alle Olimpiadi di Rio: mentre le atlete egiziane delle varie discipline hanno scelto se indossare o meno il velo, la federazione internazionale della pallavolo ha imposto nel 2000 l’utilizzo del bikini. Al netto delle sue opinioni personali, Zanardo tocca un punto importante quando dice che bisogna accogliere i migranti nel nostro paese non soltanto insegnando loro la lingua, ma anche gli usi e costumi. “Si parli di sesso, di omosessualità, di diritti”. Ma di quali diritti vogliamo parlare, nel paese che ha trasformato l’educazione all’affettività in teoria del Gender?
Alla fine di questo iter di letture ho un’idea più chiara, ma non un’opinione definitiva. Forse è giusto che sia così. Però ho una domanda, che vorrei porgere a quelli che come la capogruppo al Senato dei Conservatori e riformisti Anna Cinzia Bonfrisco parlano di “liberare con leggi severe le donne immigrate dal burqa” : una volta che le avrete liberate, che cosa succederà a queste donne?
Dicendo che burqua e burkini non sono una scelta, diamo anche per scontato che per liberarsene una donna vada incontro all’emarginazione o ripercussione famigliare. Diamo anche per scontato che non sia economicamenteindipendente, dal momento che vive praticamente in schiavitù. Quando questa donna è costretta dalla legge a liberarsi, la legge cosa fa per lei? Le trova un lavoro, nel Paese che l’Economist riconoscono come uno dei peggiori per le donne lavoratrici? La protegge da possibili aggressioni del marito, nel Paese dove i centri antiviolenza chiudono per mancanza di fondi? Se fosse incinta potrebbe abortire, nel Paese in cui 7 ginecologi su 10 rifiutano di praticare l’aborto? Ci saranno corsi di formazione, inserimenti, azioni di supporto, luoghi di accoglienza? Quando il cittadino si sarà liberato del disagio davanti alle strane figure nere, o dal fastidio di dover rispondere alle domande incuriosite del figlio, chi farà qualcosa per quelle donne?
Finché non avremo una risposta a queste domande, stiamo parlando del niente. E tutto sommato non mi serve, un’opinione definitiva sul niente.