Rasy: «La mia guerra è un storia d’amore dedicata alle donne» - Tempo Libero
di ALESSANDRO MEZZENA LONA
La Grande guerra degli eroi e dei martiri, a Elisabetta Rasy non è mai interessata. Lei, che dagli anni ’70 ha lottato in prima fila per i diritti delle donne, preferiva sentir raccontare da sua nonna altre storie. Quelle che correvano lontano dalla retorica. E che recuperavano i destini di persone dimenticate. Come le giovani infermiere spedite al fronte a curare i corpi straziati dei soldati.
È stato lì, al crocevia tra i ricordi della donna e i diari lasciati da anonime ragazze in prima linea nella Grande guerra, che ha preso forma il suo nuovo romanzo: “Le regole del fuoco”, pubblicato da Rizzoli. E con questa storia di due immaginarie crocerossine, che finiscono per aggrapparsi al sentimento dell’amore per non lasciarsi trascinare a fondo dalla disperazione, mentre attorno a loro la guerra è un gran carnaio di corpi mutilati, piagati, corteggiati dalla Morte, Elisabetta Rasy ritorna in finale al Campiello. A diciannove anni di distanza dalla sua prima esperienza al Premio veneziano con il romanzo “Posillipo”.
Sabato 10, al Teatro La Fenice, Elisabetta Rasy sfiderà per la vittoria al Campiello Luca Doninelli e il suo “Le cose semplici” (Bompiani), Andrea Tarabbia e “Il giardino delle mosche” (Ponte alle Grazie), Alessandro Bertante e “Gli ultimi ragazzi del secolo” (Giunti), Simona Vinci e “La prima verità” (Einaudi).
«Mia nonna, romagnola, era affascinata della Grande guerra - spiega Elisabetta Rasy -. Me ne parlava sempre. Aveva costruito quasi una mitologia di quel conflitto. Tanto che io, nata a Roma nel 1947, pensavo fosse finita da poco, non trent’anni prima».
I ricordi hanno dettato “Le regole del fuoco”?
«Mi sembrava giusto rivangare i ricordi della nonna romagnola, mentre si avvicinava il centenario dell’entrata in guerra dell’Italia. Però, rimuginando dentro di me sul libro, sono riemersi altri ricordi. Quelli della nonna napoletana e di una sua amica che tutti chiamavano con un nome francese. Un tipo strano di cui sentivo parlare spesso quand’ero bambina».
Dalla memoria alla Storia...
«I ricordi delle nonne sono stati uno stimolo. Una suggestione. Poi, però, ho cominciato a documentarmi: saggi, inchieste, memorie. Sono andata a cercare anche le testimonianze delle infermiere, pubblicate dopo la guerra e presto dimenticate. Da quei testi saltava fuori una visione molto realistica e cruenta. Stando in ospedale queste ragazze vedevano lo strazio dei corpi. Ferite, sangue, amputazioni. Svaniva l’aspetto patriottico, virile, restava il dolore, la morte. Il tutto raccontato senza retorica. Con partecipazione e distacco».
La guerra vista dalle donne?
«Da ragazza ho letto, e poi riletto più volte, “Addio alle armi”. E mi sono sempre arrabbiata per il destino che Ernest Hemingway riserva all’infermiera inglese Catherine Barkley. Una donna libera, autonoma, che lo scrittore toglie dalla scena facendola morire di parto. Ecco, scrivendo “Le regole del fuoco” ho voluto rovesciare questo schema e riportare le donne al centro della storia».
Il romanzo le è costato un lavoro lungo?
«Ricerche, riflessioni, sono durate a lungo. Ma quando ho iniziato a scriverlo, ho preso un ritmo molto veloce. Mi sono apparse queste due figure di donna: Maria Rosa Radice e Eugenia Alferro. Ragazze immaginarie, ma è come se le avessi conosciute davvero. Hanno condotto loro il gioco della narrazione».
Donne che amano altre donne: uno scandalo a quei tempi?
«Quando sono andata a Ypres in Belgio, dove ci sono cimiteri immensi pieni di croci di soldati di tutti gli eserciti, mi hanno raccontato storie drammatiche di amori omosessuali al fronte. Nei diari delle infermiere, invece, non si affrontava questo problema. Io, in realtà, volevo che nel mio romanzo ci fosse una storia di dolcezza e tenerezza che si facesse strada in mezzo alla violenza».
Non un elogio dell’amore omosessuale?
«Le due ragazze, in realtà, non sono gay. Una scappa da casa perché la madre insiste fino allo sfinimento perché si sposi. L’altra vuole diventare medico. Il loro incontro fa scattare la scintilla dell’amore in un momento in cui milioni di giovani vanno incontro alla morte. “Le regole del fuoco” non è un manifesto ideologico o politico, ma un racconto che dice quanto naturali siano i sentimenti».
La questione delle donne le sta a cuore fin dagli anni ’70.
«Mi sono occupata molto di donne. Un po’ per la mia militanza femminista, ma anche perché mi piace raccontare quelle che io chiamo storie smarrite. Il mondo femminile è una miniera di destini dimenticati. Censurati. Nei miei libri, la Storia si fa memoria».
Personaggi minimi, ma non certo marginali...
«No, basti pensare che queste donne del primo ’900 sono state quelle che, poi, hanno contribuito a fare la Repubblica. Pioniere dell’Italia democratica».
Le Edizioni delle Donne hanno segnato un’epoca...
«La casa editrice, che ho fondato nel 1974 insieme a Manuela Fraire, Anne Marie Sauzeau Boetti e Maria Caronia, faceva parte di un movimento molto vasto. Politico, culturale e sociale. Insieme siamo riuscite a far riconoscere alla donne una libertà, dei diritti fino ad allora impensabili».
Ma le donne non sono ancora del tutto libere...
«I nostri tempi sono molto difficili. Non dico come gli anni ’70, però il pericolo è che le donne oggi hanno meno consapevolezza. Danno per acquisiti certi diritti dimenticando che, per ottenerli, c’è stata una lotta anche aspra. Noi dovevamo aprirci la strada a fatica. Eravamo battagliere, determinate. Loro le vedo più ingenue, più esposte alla cattiveria. Basti pensare a quante difficoltà incontrano nel lavoro».
Ha aspettato fino al 1985 per scrivere un romanzo, “La prima estasi”. Perché?
«Come tante donne, mi è servito un po’ di tempo per trovare la mia vera strada. Mi sono laureata in Storia dell’Arte, poi mi sono appassionata al mondo del giornalismo. La militanza femminista mi ha coinvolta moltissimo. Allora ero più attratta dalla saggistica, dal racconto di donne famose e non. E proprio lì ho capito che dentro di me c’era il desiderio di andare oltre. Di esplorare la narrativa».
Scriveva già da bambina?
«Non scrivevo, però sono stata una lettrice precosissima. Anche perché i miei genitori amavano molto i libri. A otto anni conoscevo già i capolavori di Kipling, Dickens, Mark Twain. Ero una bambina solitaria, mi facevano compagnia i personaggi di quei fantastici romanzi: Kim, Tom Sawyer, le sorelle March di “Piccole donne”. Il mio apprendistato di scrittrice è stato quello».
Una lettrice piena di energia?
«Non ero tanto sportiva. Mi piaceva infinitamente il mare, lì mi scatenavo. Ancora oggi mi sento metà donna e metà pesce».
Ha fondato con Pier Vittorio Tondelli la rivista “Panta”. L’autore di “Rimini” poteva diventare il Pasolini del nostro tempo?
«Tondelli era un uomo, uno scrittore dalla straordinaria sensibilità. Ma era anche un solitario, un individualista. Non credo aspirasse a diventare un vate, uno che incarna la coscienza collettiva. Credo sia molto difficile che ritorni un altro Pasolini».
Troppo allineati gli intellettuali d’oggi?
«Nel coro di opinionisti nessuno riesce a essere davvero incisivo. Sono prevedibili, troppo presenti, ed è questo il dramma del nostro tempo. Pasolini viveva in un’epoca molto diversa. Non c’era internet, non c’era il sovraffollamento
di voci che ci assorda oggi».Ritorna al Campiello dopo quasi vent’anni. Emozionata?
«Si va sempre con emozione a un premio così importante. Questa volta ancor di più. Anche perché, rispetto al 1997, il Campiello è cambiato».
alemezlo
©RIPRODUZIONE RISERVATA