Il Giappone s'inchina al mondo lgbt: la corsa ai diritti e a un nuovo (e ricco) mercato
Non è semplice liberalismo: è semplicemente capitalismo. In 50 miliardi di dollari viene stimato il business legato al mondo LGBT in Giappone, e le grandi compagnie hanno cominciato la corsa a questo nuovo mercato anche in vista dei Giochi del 2020. Il comitato olimpico proibisce discriminazioni sessuali e le big company che lottano per la sponsorizzazione degli eventi, Panasonic e Japan Airlines in testa, si stanno letteralmente mettendo il belletto.
La rivoluzione avviene in un contesto culturale ovviamente molto particolare, e non solo per il grande momento di incertezza nazionale, con l’imperatore Akhito che ha annunciato di voler abdicare costringendo il Parlamento e il governo di Shinzo Abe (già travolto dalla stagnazione economica) a trovare il modo di fare una legge che lo consenta (come si fa a far abdicare Dio, visto che più o meno tale l’Imperatore era fin qui considerato?). Il fatto è che laggù la società è sempre stata più libera e, per così dire, avanti rispetto alla politica che pretende di incarnarla. Mentre le corporation fanno la gara a corteggiare i gay, per esempio, il riconoscimento del matrimonio omosessuale non c’è ancora, anche se la tradizione del koseki, il registro di famiglia dove ci si deve iscrivere per convalidare qualsiasi tipo di contratto di nozze, religiose o no, permette di inserire il partner dello stesso sesso tra i familiari tutelabili.
L’ascesa del Giappone trans è stata salutata con enorme curiosità dai cugini cinesi del South China Morning Post. Il giornale di Hong Kong, dove le coppie gay non sono istituzionalmente riconosciute e lunga è la lista di discriminazioni delle minoranze sessuali, nota divertito come “la Costituzione giapponese, scritta dagli occupanti americani nel 1947, va anche oltre quella degli Stati Uniti in termini di garanzia dei diritti delle donne, ma non menziona partner dello stesso sesso”. Nella Carta rossa di Pechino, invece, una menzione c’è, ma è quella del matrimonio inteso specificamente come unione tra maschio e femmina. L’ultima apertura, sempre ovviamente nel segno del mercato più che dei diritti, è quella che riconosce il matrimonio gay agli espatriati, cioè agli stranieri che si sono sposati altrove ma adesso si sono trasferiti e arricchiscono Pechino.
Ovvio dunque che il risvegliarsi degli interessi economici abbia adesso fatto riesplodere in Giappone anche la questione dei diritti: “Perché il mercato ci riconosce e il governo no?”. Manco a dirlo: il governo conservatore l’avrebbe anche un progetto di riforma della famiglia (e quindi della Costituzione) ma va in un senso ancora più restrittivo della definizione attuale. D’altronde questo è pur sempre il paese dove ancora, anno 2014, un ragazzino di un liceo di Osaka, che si presentava in abiti femminili, aveva dovuto farsi prescrivere il “disordine da identità di genere”, riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità, per poter fare ginnastica con le ragazze. “Se un ragazzo si vuole mettere la gonna, la metta pure: se vuole andare al bagno delle ragazze, dev’essere lasciato andare” aveva raccontato il dottor Jun Koh, l’autore della diagnosi, a una giornalista di BuzzFeed. Perché dunque bollare il ragazzino come malato? Perché la legge è legge, e la diagnosi è l’unico modo, per legge, di lasciarsi accettare. Cambieranno le cose ora che anche Tokyo Disneyland è pronta a sponsorizzare un gay pride? Nel paese che fu di Mishima, e dove la scandalosa Akihiro oggi dà voce ai cartoon dei Pokemon, mai scommettere sui tabù.