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Ramanzina alle donne che hanno abortito

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Per quanto si sapeva fino a ieri, le dimissioni ospedaliere con annessa ramanzina vengono praticate in qualche reparto di ortopedia nei confronti dell’adolescente scavezzacollo che si è procurato una frattura utilizzando in modo imprudente lo skateboard. Adesso si scopre che una Azienda sanitaria locale, quella di Bari, le ha previste in modo sistematico – tanto che la ramanzina è riassunta in un modulo prestampato – per le donne che hanno abortito.

Non è ben chiaro quando la pratica sia stata introdotta. E’ però chiarissimo il testo del modulo che una donna barese si è vista consegnare nei giorni scorsi, dopo aver abortito all’ospedale barese Fallacara-Di Venere: “Gentile signora su sua richiesta è stata sottoposta a interruzione ivg (interruzione volontaria delle gravidanza, ndr). Le auguriamo che l’intervento cui è stata sottoposta in data odierna rimanga unico. L’ivg ha delle implicazioni di ordine morale, sociale e psicologico e non solo una mera procedura chirurgica o farmacologica ma un rischio per la stabilità emotiva della donna con possibili ripercussioni sul piano relazionale. Perciò si dovrà adottare un valido metodo contraccettivo affinché la vita affettiva e sessuale possa svolgersi serenamente”.

Una sfilza di considerazioni del tutto ovvie e unanimemente condivise. Chi può negare che l’aborto non è una semplice “procedura chirurgica” e che ha tutte le citate implicazioni? Chi può sostenere che l’aborto è un metodo contraccettivo applicato in differita?  La destinataria del modulo – che si è rivolta alla redazione barese di “Repubblica” per renderlo pubblico – infatti non si è indignata per il suo contenuto, ma per il fatto di sentirsi in qualche modo ammonita e rimproverata dopo aver concluso un’esperienza traumatica. Come se non ci avesse pensato bene. Come se ci fosse il rischio che non ha imparato la lezione.

Che il modulo-ramanzina sia inopportuno, lo ha riconosciuto subito la direttrice sanitaria della Asl barese, Silvana Fornelli. Che non ne sapeva nulla: "Voglio capire – ha dichiarato - quante volte è stato utilizzato”. Si tratta, ha aggiunto, di “un vecchio documento risalente ad anni fa”. Che comunque non aveva altro scopo – anche se “poteva essere scritto meglio” – di esortare a seguire il percorso della prevenzione.  Di diverso avviso il segretario regionale pugliese della Cgil-medici che ha parlato di “terrorismo psicologico da anni Sessanta” e il mondo delle associazioni. Il “vecchio documento” in poche ore ha ripreso vita ed è diventato un caso nazionale, anche perché ha incrociato le polemiche sulla tragedia di Valentina Miluzzo, la trentaduenne morta quattro giorni fa in un ospedale di Catania dopo aver abortito due gemelli e non essere stata adeguatamente assistita, secondo la famiglia, da un ginecologo-obiettore.

Il fatto è che “vecchio documento” della Asl di Bari è una perfetta sintesi dell’ipocrisia di un sistema sanitario che riconosce l’aborto e contemporaneamente lo rende complicatissimo. L’Italia è il Paese degli obiettori: su 10 medici, 7 medici si rifiutano di praticare l’aborto. Le percentuali degli obiettori variano dal 67 per cento del Nord all’80,5 per cento del Sud. Con le sole eccezioni della Valle d’Aosta (dove gli obiettori sono il 13,3 per cento) e della Sardegna (49,7 per cento), in tutte le altre regioni superano il 50 per cento. Con punte del 90 per cento in Basilicata e del 93,3 per cento in Molise. Esistono anche ospedali dove l’obiezione è totale.

     La procedura della legge sull’aborto, la legge 194 del 1978, quasi quarant’anni fa, prevede un percorso complesso e rigoroso.  La donna che ha deciso di interrompere la gravidanza parla col medico di fiducia (o con quello del consultorio o della struttura socio-sanitaria) che la informano su tutte le implicazioni della sua scelta e, alla fine, le danno altri sette giorni di tempo per riflettere. Un meccanismo analogo era previsto anche in Francia, ma nel 2015 l’Assemblea nazionale ha votato per l’abolizione di questa “pausa di riflessione” ritenendo che, come sottolineò la deputata socialista che presentò l’emendamento abrogatico, “una donna che si presenta in clinica per abortire ci ha già riflettuto a lungo”. In Italia, dopo la riflessione, cominciano le difficoltà.

 Si tratta di una situazione sulla quale è intervenuto più di una volta l’Europa che ci ha condannato perché “L’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza, viola i diritti delle donne “(così il il Comitato Europeo sui Diritti Sociali). Nello scorso aprile, il Consiglio d’Europa ha accolto un ricorso presentato dalla Cgil sottolineando che in Italia le donne che vogliono abortire si trovano ad affrontare difficoltà che possono indurle ad andare all’estero o a rivolgersi a strutture non controllate dalle autorità sanitarie con “notevoli rischi per la salute”.

In definitiva, mentre il diritto all’obiezione di coscienza è garantito in modo totale, il sistema sanitario non garantisce il diritto a interrompere la gravidanza. Anche quando questa drammatica scelta è stata valutata, ponderata, discussa col partner, sofferta. Ecco perché il “modulo-ramanzina”, con tutto il suo buon senso, è stato vissuto come uno schiaffo dalla destinataria. “Quando lo ha letto – ha riferito a “Repubblica” un’amica della donna – è rimasta sgomenta. La scelta di abortire è stata difficilissima per lei e per il suo compagno. Quelle parole hanno ferito entrambi”.

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