“Giù le mani da Ayse Buğra”. In Turchia la mobilitazione studentesca continua
Ayse Buğra, docente di Economia politica dell’Università Boğaziçi e tra i fondatori dell’European Network for the Study of Political Society (Reasopo) è tra le voci del movimento studentesco che da oltre 40 giorni protesta in Turchia e uno dei bersagli della retorica che stigmatizza i movimenti da parte del presidente turco, Recep Taiyyp Erdoğan.
Buğra è stata etichettata da Erdoğan come l’“istigatrice” del movimento Boğaziçi e la “moglie di” Osman Kavala, filantropo e fondatore dell’organizzazione culturale non-profit, Anadolu Kültür. Kavala venne arrestato per la prima volta nel novembre 2017 con l’accusa di aver organizzato le proteste del movimento Gezi del 2013.
Le accuse contro Buğra sono state duramente criticate dagli studenti in mobilitazione in una lettera al presidente turco. “Lei nomina una donna utilizzando solo una delle sue qualifiche ossia quella di essere la moglie di qualcuno. Quindi usa un linguaggio banale e sessista. Noi invece diciamo che Ayse Buğra è una nostra professoressa preziosa [...] E diciamo che qualsiasi attacco che si commette nei suoi confronti è come se fosse commesso contro di noi”, si legge nella lettera. In una dichiarazione di Reasopo le parole di Erdoğan vengono paragonate a una “minaccia”.
Gli attacchi contro Buğra vengono definiti “spregevoli, grotteschi, inutili e immotivati”. I docenti di Reasopo vanno oltre e chiedono una mobilitazione dei governi e degli accademici europei contro gli abusi di potere e la sistematica negazione delle libertà accademiche in Turchia.
La repressione delle proteste all’Università Boğaziçi
Le proteste degli studenti turchi della prestigiosa Università Boğaziçi di Istanbul sono state innescate dalla nomina del nuovo rettore, Melih Bulu, decisa direttamente dal presidente Recep Tayyip Erdoğan. L’ampiezza delle proteste, la violenza della polizia e lo stato di assedio in cui molte città turche si sono trovate hanno ricordato le mobilitazioni di Gezi Park nel 2013 quando dalla contestazione per la costruzione di un mall al posto di un parco nel centro di Istanbul si è passati a slogan contro il partito Giustizia e Sviluppo (AKP) del presidente.
Anche a Boğaziçi la protesta non violenta di studenti e docenti, rivolti con le spalle al rettorato, ha incluso ore in piedi e immobili ricordando il repertorio di contestazioni del giovane coreografo e ballerino, Erdem Gündüz. Il 17 giugno 2013 Erdem rimase fermo come un albero in piazza Taksim durante le proteste.
Per giorni centinaia di poliziotti si sono raccolti all’ingresso del campus. La sicurezza ha permesso l’ingresso solo agli studenti, muniti di badge, mentre agli altri, inclusi parlamentari del partito democratico dei Popoli (Hdp), è stato chiesto di andare via. I marciapiedi delle strade vicine all’ingresso dell’Università sono stati chiusi, spingendo alcuni studenti a cercare di violare i check-point stabiliti dalla polizia. Fin qui sono 159 le persone arrestate a Istanbul e oltre 70 a Ankara, la polizia ha usato gas lacrimogeni e proiettili di plastica per disperdere i manifestanti. Le Nazioni Unite hanno chiesto il rilascio degli arrestati e la fine dell’uso “eccessivo” della forza.
Lo scorso 29 gennaio una mostra d’arte, in corso durante le proteste nel campus, è stata usata dalle autorità turche come scusa per stigmatizzare i contestatori in relazione ad un’immagine della Ka’ba di La Mecca che includeva una donna serpente, Şahmaran, decorata con la bandiera arcobaleno della comunità LGBTQ. Due studenti sono stati arrestati, una volta rinvenuta l’immagine, e definiti dal ministro dell’Interno, Süleyman Soylu, come “pervertiti” mentre i media turchi hanno accostato la mobilitazione studentesca alla difesa dei diritti LGBTQ nel paese. La comunità LGBTQ in Turchia sta prendendo parte alle proteste così come ha ampiamente partecipato al movimento Gezi e ha organizzato marce e contestazioni negli ultimi anni subendo aggressioni e arresti sommari.
Sono migliaia i poliziotti, i giornalisti, i magistrati, gli accademici e i sindacalisti arrestati o rimossi dai loro incarichi in seguito al fallito golpe del 15 luglio 2016. Eppure è senza precedenti la decisione di Erdoğan di negare all’Università Boğaziçi di scegliere il suo rettore e imporre le sue clientele per mettere il bavaglio a uno degli ultimi atenei critici nei confronti delle sue politiche neoliberiste, che nel 2020 sono costate un’inflazione al 40%, insieme ai suoi stretti alleati di estrema destra, i nazionalisti dell’Mhp.
“Non è un sultano e non siamo i suoi sudditi”
E così nella lettera rivolta a Erdoğan, gli studenti protestano anche contro la decisione di aprire nuove facoltà per imporre la nomina di personale a lui gradito. “Ha deciso di aprire nuove facoltà nella nostra università nominando da solo dei decani, con l’obiettivo di opprimere gli studenti, i professori e tutti i lavoratori di questa università”, si legge nel messaggio del movimento studentesco.
Ma la protesta universitaria non si limita ormai a denunciare l’aggressione di Erdoğan sulle libertà accademiche e arriva fino a criticare l’autoritarismo del presidente turco. “Abbiamo notato che […] ha pronunciato questa frase: ‘Se hanno coraggio chiedano le mie dimissioni’. Chiedere le dimissioni del presidente della Repubblica è un diritto garantito dalla Costituzione? Sì. Quindi perché dovrebbe essere un atto di coraggio praticare un diritto garantito dalla Costituzione? Non siamo come quelli che le obbediscono senza condizioni. Lei non è un sultano e noi non siamo i suoi sudditi”, prosegue provocatoriamente la lettera degli studenti.
La nomina dell’uomo di fiducia di Erdoğan a capo della Boğaziçi richiama alla mente l’imposizione di commissari governativi in tutte le municipalità, guidate da sindaci democraticamente eletti, del partito democratico dei Popoli (HdP) nel Kurdistan turco. E così, come ha sempre fatto con la sinistra filo-curda, Erdoğan si è affrettato a definire “terroristi di sinistra” gli studenti che partecipano alle proteste chiudendo un occhio verso le armi che dalla Turchia hanno sostenuto i veri jihadisti dello Stato islamico (Isis) in Siria, come denunciato dal giornalista costretto all’esilio in Germania, Can Dündar.
Se il partito filo-curdo Hdp, i cui leader Selahettin Demirtaş e Figen Yuksekdağ restano in prigione, ha accordato il suo sostegno al movimento studentesco di Boğaziçi, lo stesso ha fatto il partito Repubblicano (Chp) che ha chiesto il rilascio immediato degli studenti arrestati, mentre il leader del partito, Kemal Kilicdaroglu, ha chiesto le dimissioni di Bulu.
Continuano gli attacchi in Kurdistan
Mentre sono in corso le proteste di Boğaziçi non si fermano gli attacchi turchi nel Kurdistan iracheno e siriano. L’aviazione turca ha bombardato le città di Priz, Bergare e Siyane nella zona di difesa di Medya lo scorso 10 febbraio, operazioni di terra hanno riguardato l’area di Siyane mentre sono in corso combattimenti. Le azioni turche nel Kurdistan iracheno sono partite lo scorso autunno in seguito all’accordo di Sinjar che, con il lascia passare del governo autonomo del Kurdistan iracheno, ha permesso all’esercito turco di attaccare i sostenitori del partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) del leader curdo, Abdullah Ӧcalan, in prigione in isolamento in Turchia.
Le violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito turco non si fermano neppure nel cantone di Afrin, occupato dalle forze turche in seguito all’ “Operazione Ramoscello d’Ulivo” nel gennaio 2018. Anche le Nazioni Unite hanno criticato le “precarie condizioni delle donne curde” nel cantone di Afrin.
Nel report si parla di prove di stupro, violenza sessuale, molestie e torture nella prima metà del 2020. Vengono documentati gli stupri di almeno 30 donne nella città curda di Tal Abyad. Un video pubblicato lo scorso anno mostrava una donna in una prigione segreta e molto affollata. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, le donne detenute in quella prigione sono state poi ritrovate nude, nello stile di violenza e torture, perpetrate dai jihadisti dello Stato islamico (Isis) negli anni precedenti. Eppure le detenute erano nelle mani di milizie sostenute dalla Turchia, paese membro della Nato e alleato degli Stati Uniti.
“Si respira un clima di paura al punto che le donne non possono lasciare le loro case per non essere il target di gruppi armati”, ha spiegato Meghan Bodette, fondatrice di Missing Afrin Women Project, un sito che ha lanciato nel 2018 per denunciare la scomparsa e la tortura delle donne nella regione.
173 donne sono state rapite dall’inizio del 2018, secondo alcune fonti si potrebbe arrivare a 1500: solo 64 sono state rilasciate. Meghan parla di una “campagna di terrore contro la popolazione curda”. Human Rights Watch (Hrw) ha aggiunto che la “safe zone” turca è “tutt’altro che sicura”, come confermato dal direttore per il Medio Oriente di Hrw, Sarah Leah Whitson; è invece il cuore di saccheggi, esecuzioni, sparatorie e sparizioni forzate. Un esempio di grave violazione dei diritti umani è stato l’assassinio di Hevrin Khalaf, politica curda siriana e ingegnere, torturata e uccisa durante l’ “Operazione Sorgente di Pace” dall’esercito turco nel 2019.
Negli ambienti conservatori turchi, l’omicidio è stato definito un’operazione di anti-terrorismo conclusa con successo, mentre Hevrin ha dedicato la sua vita alla difesa della democrazia e dei diritti delle donne.