L’Italia non è un paese per donne
Dire che la pandemia ha provocato gravi ripercussioni, oltre che in termini di vite umane, nel nostro tessuto, sembrerebbe scontato. Eppure non lo è affatto; c’è un meccanismo invisibile che si presenta ogni qual volta c’è una crisi in sviluppo, e più grave è la crisi più velocemente questo meccanismo viene accelerato: chi è già in una situazione di inferiorità ne paga maggiormente le conseguenze e finisce per soccombere. Lo stesso non succede con i più ricchi, quelli che da soli possiedono più risorse di quante ne abbia a disposizione circa il 60% della popolazione mondiale; loro continuano a vedere i loro indecifrabili conti crescere, aumentando la loro potenza sui “cadaveri” a cui basterebbe un grammo dei loro possedimenti per vivere una vita migliore, quantomeno dignitosa. Le donne sono la punta dell’iceberg di quel fondo di disparità in cui sono sempre più costrette a rinchiudersi; se sono donne e giovani si raggiunge un abisso di incertezza e precarietà.
Vedendo infatti i dati Istat, nel 2020 si è registrata una perdita di 444 mila posti di lavoro rispetto al 2019. Di questi 312 mila erano occupati da donne, 132 mila da uomini. Lo stravolgimento globale dovuto al diffondersi del virus ha riguardato principalmente lavoratori autonomi o coloro che già avevano un contratto a tempo determinato, ma sono state soprattutto le donne, assieme ai giovani, a farsi carico di un peso che non meritano di sopportare. Questo è accaduto proprio perché continuano a rappresentare una categoria discriminata. Al di là dei passi in avanti in materia culturale e di diritti, si sta facendo ancora troppo poco per “sfruttarne” le risorse. Più di metà delle donne sono disoccupate; se si riuscisse ad occuparne il 60% il PIL del nostro paese aumenterebbe del 7%.
Tuttavia forse questo dato non piace al paternalismo che ci pervade quotidianamente, figlio di un’epoca ormai passata ma che cerca in tutti i modi di rimanere attaccato al presente con la scusa del “non si può dire più niente” o la classicissima “non tutti gli uomini sono così”. Allontanare l’attenzione dal problema reale non è la soluzione, è procrastinazione per la pigrizia di non riconoscere il proprio privilegio, senza far nulla in concreto per contribuire a una parità necessaria ma non ancora compresa da molti.
Siamo il paese con la percentuale più alta di disoccupazione femminile in Europa. E non possiamo immaginare una ripresa economica senza investire buona parte delle risorse che arriveranno dalla UE proprio in questo ambito. La redistribuzione dell’enorme enorme capitale che ci spetta deve tener conto di queste profonde disuguaglianze. Solo così potremo raggiungere una tangibile equità. Lentamente, però, perché siamo pur sempre in Italia.
Noi di Stop and Change cerchiamo, nel nostro piccolo, di diffondere il messaggio a quante più unità possibili. Non perpetuiamo ideologie infondate, ma verità sacrosante; una donna non può ancora oggi essere obbligata a scegliere tra la carriera e la famiglia perché nel suo paese non c’è posto per entrambe; non può essere a priori esclusa in diversi ambiti lavorativi perché considerata più debole di un uomo, venendo “trasferita” in settori dove percepisce uno stipendio minore; non può vedere considerata la maternità come un deficit all’assunzione perché nel suo paese la paternità non viene ancora considerata come dovrebbe. Dovrebbe solo essere libera di poter esprimere i propri talenti al suo massimo, senza partire da una condizione di svantaggio rispetto a un uomo.
Tutto questo perché la sua libertà è un diritto inalienabile che le appartiene. E la sua libertà renderebbe più liberi un po’ tutti noi. L’Italia non è un paese per donne; noi vogliamo contribuire a renderlo tale.