Perché la storia di Samira Zargari riguarda anche noi
Samira Zargari, la commissaria tecnica nazionale iraniana di sci alpinismo, alla quale è stato impedito dal marito di partire con la sua squadra per i mondiali di Cortina, è solo un piccolo spaccato di una realtà molto più vasta e complessa.
La repubblica islamica dell’Iran ha dato più volte prova della sua scarsa propensione a garantire i diritti basilari alle donne, tutti ricordano il triste episodio del 2019 con il suicidio di Sahar Khodayari, la trentenne che si tolse la vita dandosi fuoco per il divieto che impedisce alle donne iraniane di entrare allo stadio, dopo quel tragico atto, 3500 donne poterono accedere per la prima volta alle qualificazioni ai mondiali.
Sahar, “The girl in blue”, così soprannominata per aver trasgredito alla regola, presentandosi allo stadio vestita di blu, facendosi scambiare per un uomo, è rimasta un simbolo della lotta alle discriminazioni che ancora oggi colpiscono le donne iraniane.
Nonostante in questi anni l’Iran abbia fatto dei passi in avanti, non garantisce ancora i diritti necessari secondo gli standard internazionali alle donne, esempio lampante sono le donne sposate con un cittadino straniero, nel caso dovessero avere dei figli con quest’ultimo, devono recarsi a fare domanda formale per conferire la cittadinanza ai figli e in seguito far sottoporre i bambini ad un controllo da parte dell’intelligence.
Un elemento aberrante, da sottolineare, è che nel codice penale dell’Iran non è presente il reato di violenza contro le donne e ragazze per motivi di genere, compresa la violenza domestica e i matrimoni precoci e forzati, che sono la normalità in Iran, raramente infatti le donne conoscono il loro partner prima di sposarsi, le relazioni sono quasi sempre combinate e il sesso è consentito solo dopo il matrimonio.
Le donne sono costrette all’utilizzo del hijab per coprirsi la nuca, negli anni ci sono stati moltissimi movimenti contro questa imposizione, un’attivista nota per la sua battaglia contro l’obbligatorietà del hijab è Masih Alinejad, costretta per via delle sue posizioni antigovernative all’esilio in America, ha scritto un libro sull’argomento “The Wind in my Hair”: racconta la sua lotta contro questo obbligo e la sua personale relazione con l’hijab, infatti Masih proveniente da una famiglia tradizionale, è stata costretta all’utilizzo del velo anche in casa a partire dai sette anni.
La lettura della questione di Masih Alienjad è chiara e limpida, il problema non è l’hijab di per sé, bensì l’istituzione politica che ci sta dietro e che controlla la vita delle persone, è la macchina politica della repubblica islamica dell’Iran il vero e unico problema. Masih ha più volte spiegato che lei non è contro l’uso dell’hijab, lei stessa è stata costretta ad indossarlo per anni e le sue stesse sorelle lo indossano (per scelta oltre che per obbligo), lei lotta contro il controllo, l’impossibilità di essere libere e liberi.
Le donne non possono viaggiare senza il permesso del padre o del marito, non possono essere libere di scegliere chi sposare, sono obbligate ad un codice di vestiario. L’hijab è solamente un simbolo del potere, della sottomissione e del controllo, la limitazione della libertà viene veicolata anche solo tramite un semplice velo: segno della supremazia della forza politica iraniana, le donne sono così costrette a essere pedine di un sistema.
È quel sistema della repubblica islamica dell’Iran a dover essere scardinato e ricomposto secondo gli standard internazionali dei diritti umani, non è la religione ad essere il problema o i suoi simboli religiosi, è la formazione e struttura politica ad essere il grande limite alla libertà delle donne iraniane e non solo.
Questo dilemma deve essere anche di nostro interesse, viviamo in una società che si influenza anche a distanza di migliaia di chilometri, in una concezione di mondo globale e di cittadini del mondo, non è accettabile una limitazione tale del libero arbitrio fomentato da questioni di genere. Quello che accade dall’altra parte del globo, influenza indirettamente anche noi, i negoziati e gli equilibri geopolitici devono tenere conto dei diritti umani e se vengano garantiti nei paesi in questione, non possiamo accettare violazioni di principi che devono essere saldi e presenti, la civiltà deve essere radicata in tutti i paesi del mondo.
Non è utopia, è razionalità: la comunità internazionale deve lavorare affinché questi paesi si adattino ai valori di libertà e eguaglianza, anche ove si dovessero compromettere degli interessi geopolitici ed economici, non si può piegare il capo sui diritti.