Diritto al bikini. Le tedesche del beach volley schiacciano sul muro del Qatar
A Karla Borger e Julia Sude, giocatrici di beach volley della Nazionale tedesca, è bastato incrociare le braccia e annunciare, in un’intervista a Der Spiegel, di essere pronte a boicottare il World Tour in Qatar se costrette a rinunciare al bikini, divisa naturale di uno sport nato in spiaggia. Tempo poche ore e l’accusa di discriminazione, con relativo spettro di polemica globale, ha convinto gli organizzatori a ritirare la regola contestata, vale a dire l’obbligo per tutte le giocatrici di indossare maglietta e pantaloni lunghi. Dunque, la retromarcia: ciascuna Nazionale potrà giocare abbigliata secondo le proprie tradizioni, come già accaduto alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, quando fecero il giro del mondo le foto delle egiziane in leggins e hijab a confronto delle altre in bikini.
GettyLe italiane Laura Giombini e Marta Menegatti contro le egiziane Nada Meawad e Doaa el Ghobashy, il 9 agosto 2016, alle Olimpiadi di Rio de Janeiro
Da diversi anni il Qatar ospita i tornei di beach volley maschile e il corpo degli atleti – guarda caso – non è mai stato un problema. Quest’anno il Paese del Golfo ha aperto per la prima volta alle competizioni femminili, che si svolgeranno a Doha nel mese di marzo. Subito sono arrivati i “problemi”, perché per l’emirato retto dalla famiglia reale Al Thani, bastione dell’islam salafita, l’idea di ospitare donne in costume da bagno era quasi un sacrilegio. Eppure, nel Paese che ospiterà anche i Mondiali di calcio 2022, è bastata la minaccia del boicottaggio tedesco per arrivare a più miti consigli e ritirare il diktat sul dress code.
GettyKarla Borger e Julia Sude
È un aspetto su cui riflettere in vista degli stessi Mondiali, letteralmente costruiti sul sangue della manodopera migrante, secondo un report pubblicato dal Guardian qualche giorno fa: dall’assegnazione del torneo, in Qatar hanno perso la vita oltre 6.500 lavoratori migranti provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka. Numeri in realtà sottostimati, perché dal triste conteggio mancano i decessi degli operai provenienti da Filippine, Kenya e altri Paesi che sono grandi bacini di manodopera per l’emirato del Golfo.
Dalla Norvegia è arrivata la prima reazione veramente forte, a opera del Tromso, club di prima divisione: in una nota ufficiale, la società che rappresenta l’omonima città del nord del Paese ha invitato la Federcalcio di Oslo “a sostenere il boicottaggio della Coppa del Mondo 2022. Crediamo che la Nazionale norvegese dovrebbe dire “no, grazie” al viaggio in Qatar qualora riuscisse a qualificarsi alla fase finale”. L’idea del boicottaggio era già stata avanzata da alcuni Paesi, a cominciare dalla Danimarca, con diverse sfumature: gli olandesi, ad esempio, sarebbero orientati verso un boicottaggio ‘diplomatico’: Governo e Corona non dovrebbero essere presenti a Doha in segno di protesta per la scarsa considerazione dei diritti umani dimostrata dalla monarchia qatarina.
Altri sostengono che andare a Doha rappresenti una vetrina per indirizzare il Qatar verso maggiori diritti civili, come dimostra il caso delle atlete tedesche. Secondo Farian Sabahi - accademica, giornalista e islamologa - per gli attivisti che lavorano nel campo dei diritti umani lo sport può essere un ottimo strumento grazie alla sua forte visibilità mediatica. A una condizione: non chiudere gli occhi di fronte a violazioni sistematiche dei diritti di donne, opposizioni e minoranze, troppo spesso sacrificati agli interessi economici e ai calcoli geopolitici di un Occidente che - quando vuole - sa far valere le proprie istanze.
“È sicuramente importante che le atlete straniere facciano accendere i riflettori dei media sulla terribile condizione delle donne in alcuni Paesi del Medio Oriente, ma non dobbiamo dimenticare che queste violazioni ci sono in modo sistematico tutti i giorni”, sottolinea Sabahi ad HuffPost. “Migliaia di persone sono rinchiuse nelle carceri del Qatar, come dell’Arabia Saudita e del Bahrain, a causa della loro fede religiosa, perché magari sono sì musulmani ma appartengono alla ‘setta’ sciita considerata eretica, oppure semplicemente perché sono donne che portano avanti una battaglia per i diritti delle donne”.
“Il problema - sottolinea Sabahi, specializzata in business development ma anche in diritti umani - sono i tanti interessi economici da parte di tutto l’Occidente, Europa e Stati Uniti ma non solo, per investimenti e vendita di armi a questi Paesi”. Il tema, antico ma sempre attuale, è quello della coerenza di un mondo che si professa paladino dei diritti umani, salvo poi fare affari con chi quei diritti li calpesta ogni giorno. “L’Unione Europea – prosegue Sabahi - deve parlare con una voce sola e in modo congiunto per difendere i diritti umani, soprattutto in quei Paesi dove poi va a lavorare, esportare, giocare, come nel caso dei Mondiali 2022. Non possiamo delegare allo sport la difesa dei diritti umani: al contrario, dovrebbe essere una prerogativa e una priorità dell’Unione Europea”.
Ben venga dunque la battaglia di Karla e Julia, quando serve a portare l’attenzione sul fatto che un governo non dovrebbe decidere sulle libertà individuali delle persone. Guai però a gioire troppo: la divisa delle atlete qatarine, come quelle di altri Paesi islamici, continuerà a essere più castigata possibile, e se è vero che per alcune lo hijab non è un’imposizione, per altre è lecito pensare che lo sia. Il punto – precisa Sabahi - è che in questi Paesi, per le donne, i veri problemi sono di natura giuridica, mentre il velo è solo la punta dell’icerberg: la donna deve sottostare all’uomo in base al principio di qawama, del ‘guardiano’; il padre/fratello/marito è il guardiano/tutore della donna, che non può mai decidere per sé perché sempre considerata minorenne e sotto tutela maschile.
GettyDonne musulmane di fronte al cimitero di Jannat Al Baqi
La riflessione di Sabahi, autrice di diversi libri tra cui “Storia dell’Iran. 1890-2020” (Il Saggiatore), si fa amara di fronte a un dato di fatto: se le ricche monarchie del Golfo, sempre più connesse all’Occidente per interessi economici, possono talvolta essere costrette a smussare i loro spigoli per venire a patti con i ‘valori’ occidentali, questa ‘arma’ decade nel caso di popolazioni dimenticate come quella yemenita. “Utilizzare lo sport e il calcio è un buono strumento per difendere i diritti umani in un Paese come il Qatar, che ospiterà i Mondiali di Calcio, ma purtroppo questo stesso strumento, lo sport, non potrà salvare la vita a milioni di yemeniti che subiscono dal 26 marzo del 2015 i bombardamenti della coalizione guidata dall’Arabia Saudita. È una guerra che va avanti da sei anni, nel silenzio, una catastrofe umanitaria che ha già provocato 130mila morti e costretto alla fame 22 milioni di persone che rischiano di morire di stenti”.
Per loro, non ci sarà nessun Torneo di beach o Mondiale di calcio a cui aggrapparsi per sensibilizzare l’Occidente sulla carneficina portata avanti dalla coalizione guidata dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Lo stesso su cui da oggi pesano le accuse di Washington: fu lui ad approvare il blitz che portò all’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi. Ed è sempre con lui che il leader di Italia Viva Matteo Renzi elogiava poche settimane fa il “Rinascimento arabo”. Ci si scuserà se l’articolo, da un bikini, è arrivato fin qua, ma anche questo paradosso racconta le contraddizioni di una retorica dei diritti esercitata a singhiozzo.