"A Tunisi la rivoluzione continua. Donne e comunità Lgbt sono in prima linea"
Abbiamo raggiunto al telefono a Tunisi, l’attivista per la difesa dei diritti delle donne, Henda Chennaoui.
Sono tornate le manifestazioni a dieci anni dalla rivoluzione del 2010-2011 che ha ottenuto la fine del regime di Zine El-Abidine Ben Ali, ci sono nuove rivendicazioni?
Tutto è iniziato con manifestazioni notturne all’inizio di gennaio, era la settimana dell’anniversario della rivoluzione in Tunisia, era stato imposto il coprifuoco per decreto governativo. Nei mesi di dicembre e gennaio in Tunisia, ogni anno ci sono manifestazioni con richieste di giustizia sociale, nei quartieri popolari di Tunisi. Sono state manifestazioni notturne non autorizzate, segnate da una completa censura mediatica, accompagnata da una repressione della polizia che si è abbattuta sui quartieri popolari, con arresti di massa di giovani, di adolescenti, arresti arbitrari, accompagnati da violenze e torture nei centri di detenzione. Il ministero dell’Interno ha accusato i manifestanti di essere dei “distruttori”. La repressione ha spinto le forze giovanili di Tunisi, i giovani attivisti della società civile e gli attivisti di associazioni informali e movimenti politici a cercare di superare i divieti e sostenere i manifestanti notturni dei quartieri popolari. Hanno iniziato a organizzarsi spontaneamente nel centro di Tunisi con marce, manifestazioni, assembramenti, per chiedere la liberazione dei detenuti e anche per rendere visibili i manifestanti dei quartieri popolari. Il 14 gennaio c’è stata una manifestazione che è partita dal sit-in dei feriti della rivoluzione a Tunisi. Erano lì per chiedere finalmente un riconoscimento ufficiale da parte dello stato che tarda ad arrivare nonostante siano passati dieci anni. Queste manifestazioni sono continuate fino a metà febbraio. Come al solito, si tratta di manifestazioni non completamente organizzate, con attivisti della società civile, giovani con una configurazione mista: attivisti LGBTQ, femministe, giovani impegnati contro la legge 52 che criminalizza i consumatori di cannabis, Ultras o giovani sostenitori di squadre di calcio che sono uno degli obiettivi preferiti della repressione della polizia, ci sono studenti, laureati disoccupati, sindacalisti, c’è di tutto. Sono molto determinati a rompere le barricate costruite dal ministero dell’Interno che dal 2014 impedisce i movimenti, soprattutto in via Habib Bourghiba, la strada da dove è partita la rivoluzione il 14 gennaio 2011. Si tratta di un movimento che non ha un’identità politica chiara, porta avanti richieste di riforme economiche, soprattutto a Tunisi, giustizia fiscale, riforme per cancellare politiche di austerità non giustificate, lotta alla corruzione. I giovani sono scesi in strada al fianco dei marginalizzati non solo nei quartieri popolari ma in tutta la regione. Abbiamo visto anche una mobilitazione da parte dei contadini, per la prima volta si sono organizzati contro le misure di austerità e la privatizzazione dell’agricoltura in Tunisia.
Si tratta di un movimento in continuità con le proteste del 2010-2011?Possiamo parlare di continuità. Come per i movimenti precedenti che chiedevano di riformare la giustizia, l’economia, dare più libertà, non vedere minacciate le conquistate della rivoluzione, come la libertà di espressione, di organizzarsi politicamente e di manifestare per strada. Ho assistito a tutte le manifestazioni da gennaio, si nota un’identità, una continuità nel modo in cui ci si posiziona rispetto alle forze di sicurezza, l’esperienza conquistata verso i messaggi politici e mediatici. Quello che è nuovo questa volta, ed è visibile, ma non una sorpresa per me, è l’intersezionalità in tutte le lotte, presente sul terreno durante le manifestazioni. Gli slogan femministi, LGBT, a fianco delle richieste di giustizia sociale, prima erano divise, frazionate, oggi c’è un ritorno all’unione di queste domande, che mostra maturità nel militantismo in Tunisia: una nuova generazione che si unisce dal basso, nei quartieri popolari, ma anche a livello politico e militante.
C’è stata una violenta repressione da parte della polizia?I metodi di repressione politica sono sempre gli stessi: arresti arbitrari, sono state terrorizzate comunità intere nei loro quartieri, abbiamo testimoniato, con organizzazioni che difendono i diritti umani, le torture di bambini in centri di detenzione, giovani interrogati sotto tortura, almeno mille giovani sono stati arrestati nell’ultimo mese, da innocenti. Sono processi politici che servono a terrorizzare le loro famiglie e la loro comunità, nessun responsabile o rappresentante dello stato parla di questa violenza, accusa queste pratiche o avverte che saranno punite secondo le leggi che criminalizzano la tortura per strada durante le manifestazioni. Abbiamo visto i sindacati della polizia molestare, in tutti i modi possibili, attivisti Lgbt e femministe, giovani attivisti, leader nelle loro comunità, nei quartieri popolari. Li prendono di mira per dare l’esempio e per far tacere leader di movimenti che sono credibili: è un messaggio politico pericoloso che minaccia le libertà conquistate dalla rivoluzione e il diritto dei tunisini a organizzarsi e manifestare. Questo porterà più frustrazioni ai tunisini. Viviamo una crisi economica severa, non solo per la pandemia, ma per anni di discriminazione e cattiva gestione.
Le donne tunisine hanno ottenuto importanti risultati dopo il 2011?Oggi il femminismo istituzionale, rappresentato da strutture come l’Associazione tunisina delle donne democratiche (Atfd) e movimenti femministi alternativi, gruppi femministi di Tunisi e della regione, la maggioranza delle femministe avanzano richieste economiche: giustizia sociale, nell’eredità. Le femministe responsabilizzano lo stato davanti a questa crisi economica che rischia di far perdere tutte le conquiste ottenute dalle donne e di bloccare le riforme, recentemente votate in parlamento come la legge 58 contro le violenze contro le donne. Nelle ultime manifestazioni, le femministe erano in prima linea, sul fronte delle manifestazioni con slogan politici che si possono riassumere in: giustizia sociale e per tutti, riforme, lotta contro la corruzione, riconoscimento dei martiri della rivoluzione.
Gli attivisti Lgbt tunisini hanno acquisito dei diritti dopo la rivoluzione del 2011?
Parliamo di giovani, di una nuova generazione che ha una visione intersezionale, come Saif Aydi, e tanti altri, impegnati allo stesso tempo nel militantismo Lgbt e nella lotta sociale e politica. È molto diverso dal passato. Questa nuova esperienza riguarda un’organizzazione che non è strutturata, non c’è un partito politico ma ci sono tradizioni che dal 2007 si sono stabilite poco a poco. Prima non avevamo l’abitudine di vedere militanti Lgbt partecipare a manifestazioni politiche generaliste, le piccole esperienze si sono accumulate, il movimento Lgbt dà legittimità anche ai militanti dei partiti di sinistra, come il Fronte popolare o altri: dà una dimensione nuova alle proteste nei paesi arabi. Si può vedere questa intersezionalità in strada e nel modo di formulare le richieste e le rivendicazioni politiche. Questi leader del movimento femminista e Lgbt erano molto visibili a gennaio e febbraio, erano sempre là a protestare. Sono stati presi di mira dalla repressione della polizia. L’azione più grave c’è stata contro Rania Amdouni, militante politica e Lgbt da tempo, riconosciuta, con un’identità queer, obiettivo di una repressione e intimidazione da parte dei sindacati della polizia. Ma non c’è solo lei, sono tante le militanti femministe e LGBT che hanno sofferto di questa repressione, che hanno visto le loro foto pubblicate sui social network con minacce di morte, interrogati sotto tortura, arrestati senza motivo, le loro famiglie sono state minacciate dalla polizia nei loro quartieri, tutta questa repressione rende evidente la paura del ministero dell’Interno nel vedere l’intersezionalità del movimento, di vedere che i giovani che protestano sono variegati. E così la risposta del ministero dell’Interno è stata forte, questo mostra che hanno coscienza della gravità della situazione, se tutti si uniscono il movimento è veramente storico.
I lavoratori tunisini sono stati dei protagonisti delle proteste del 2010-2011, e nei nuovi movimenti?
La situazione è caotica, migliaia di persone hanno perso il lavoro, nessuno ha le cifre chiare sul tasso di disoccupazione, oggi il sindacato Union Générale Tunisienne du Travail (Ugtt) è indebolito e non riesce ad imporre un dialogo nazionale per uscire dalla crisi politica ed economica, assistiamo altresì a un indebolimento del movimento sindacale, i giovani sono stanchi, sentono la crisi economica, la fatica di manifestare di operai, sindacalisti, insieme alla repressione che torna in forza. È difficile parlare di migliori diritti per i lavoratori, con le politiche di austerità imposte dal Fondo monetario internazionale (Fmi) non si può parlare di un vero negoziato sui diritti dei lavoratori.
Come è stata affrontata la pandemia dalle autorità tunisine a livello sanitario? È stata usata come pretesto per reprimere il dissenso?
Da un anno, non abbiamo visto una strategia chiara contro il Covid, non abbiamo alcuna strategia per sostenere i più marginalizzati durante la crisi né a livello sanitario né economico, non abbiamo idea sulla volontà dello stato di costruire una strategia per affrontare la campagna vaccinale. I tunisini sono lasciati a loro stessi e non possono contare sullo stato. Gli ospedali non sono equipaggiati, lo stato non negozia con il settore privato per aiutare il settore pubblico nella crisi sanitaria. Coprifuoco e stato di emergenza sono usati per evitare i movimenti sociali nel paese in seguito alla crisi del potere d’acquisto e con l’aumento dei disoccupati e di chi sta per perdere il suo lavoro.