Arabia Saudita, se la difesa di Renzi viene prima dei diritti umani: ministra Bonetti, non si vergogna un po'?
“Errare humanum est, perseverare autem diabolicum “. Il celebre detto latino va ricalibrato e aggiornato alla luce del “caso MbS-Khashoggi” e dell’incredibile sequela di giustificazioni campate in aria di ridicole auto-interviste del diretto interessato. Ed ora a questa collana di ardite e mal riuscire arrampicate sugli specchi, si è iscritta anche un esponente del Governo Draghi: la ministra delle Pari Opportunità, Elena Binetti, devota di “san Matteo” (Renzi.
La ministra in trincea
“Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, come politica e ministro delle Pari Opportunità, ho ben chiare le grandi questioni che sono aperte sul tema dei diritti, che ha anche evidenziato lo stesso Renzi, ma sono altrettanto consapevole di quanto l’Arabia Saudita, come Paese del G20, sia un baluardo della lotta al terrorismo e di come quel Paese abbia iniziato un primo percorso nell’allargamento dei diritti“.
La ministra Elena Bonetti si schiera al fianco del suo leader di partito, Matteo Renzi, e parlando a SkyTg24 difende la decisione del senatore di Rignano di recarsi alla “Davos del deserto” come membro della fondazione Future Investment Initiative Institute, pagato fino a 80mila euro all’anno, per lodare i “progressi” realizzati dalla monarchia del Golfo grazie al piano di sviluppo Vision 2030. Un’idea nata dalla mente di quel Mohammad bin Salman, principe ereditario, incensato dal capo di Italia Viva ma che l’intelligence americana ha individuato come il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, ucciso, probabilmente fatto a pezzi e mai ritrovato dopo il suo ingresso all’interno del consolato saudita di Istanbul, il 2 ottobre 2018.
“Matteo Renzi ha chiarito con estrema puntualità tutte le questioni che gli sono state poste, non si è sottratto alla trasparenza, come è sua abitudine”, ha sottolineato Bonetti. Nonostante l’ex premier abbia disatteso le aspettative di chi, come da lui stesso dichiarato nel corso della crisi di governo, si aspettava che si sottoponesse alle domande dei giornalisti nel corso di una conferenza stampa convocata ad hoc. La ministra conclude poi riprendendo la tesi di Renzi secondo la quale “le relazioni internazionali servono a consolidare e incentivare questo tipo di percorso (quello dell’allargamento dei diritti, ndr). Dopo di che Italia Viva è un partito che ha promosso e reso concreta la tutela dei diritti, sia nei rapporti internazionali che nella pratica nazionale”.
Quello conseguito dalla ministra Binetti è un record mondiale di strafalcioni, uso improprio di termini, quali “baluardo”, “allargamento” (dei diritti), e amenità del genere.
Allargamento dei diritti
Su Riyadh “baluardo della lotta al terrorismo, alziamo le mani e ci arrendiamo. E torniamo a fare ricorso alla saggezza dei proverbi: “Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire” etc. Un Paese che è stato la culla del wahabismo, che ha dato i natali a 15 dei 19 attentatori dell’11 settembre, che ha finanziato in tutto il mondo, Europa e Italia comprese, scuole coraniche (madrasse) dove imam wahabiti e salafiti, stipendiati dal Regno Saud, indottrinavano alla jihad. Il Paese di Osama bin Laden, baluardo della lotta al terrorismo è più di una provocazione, è una vera e propria idiozia.
Forse, la ministra Binetti, che pure insegna all’Università, non è molto aggiornata sul tema. E passi. Ma da una ministra delle Pari Opportunità, sentir parlare di un allargamento dei diritti umani in Arabia Saudita, questo è davvero intollerabile.
Ecco i principali obblighi cui devono sottostare le donne in Arabia Saudita. A sintetizzarli, con grande efficacia, su Avvenire è Camille Eid.
Tutela maschile
La donna saudita è sottoposta alla tutela di un parente maschio (mahram, in arabo) che può essere suo padre, marito, fratello o figlio. Una custodia permanente, anche in caso di violenza domestica. Il tutore non provvede alle necessità della donna, ma le limita, impedendone qualsiasi forma di emancipazione: non può viaggiare, sposarsi, lavorare o accedere all’assistenza sanitaria senza il suo permesso. Nel caso di matrimonio con uno straniero, le donne devono inoltre chiedere l’approvazione del ministro dell’Interno.
Vestiario
La scelta del guardaroba è molto limitata per le donne saudite, che devono indossare sempre l’abaya, un lungo vestito che arriva fino ai piedi, oltre al velo islamico (di cui parla il Corano). Negli anni, è stato concesso solo un minimo margine di libertà sul colore. Un decreto entrato in vigore nel 2012 vieta ai titolari dei negozi di articoli femminili, come cosmetici e lingerie, di assumere personale maschile, portando sì all’ingresso di molte donne nel mondo del lavoro, ma anche alla chiusura di centinaia di piccoli esercizi.
In tribunale
Richiamando alcune norme coraniche, la testimonianza offerta in sede giudiziaria da una donna vale la metà di quella di un uomo. Lo stesso vale per l’eredità che tocca a una donna, dimezzata rispetto all’uomo. Eppure Riad è stata eletta nel 2017 membro della “Commissione Onu sulla condizione delle donne” che ha come compito «la promozione della parità tra i sessi e dell’autonomia delle donne». «È come nominare un piromane a capo dei pompieri», aveva commentato il presidente di “Un Watch”.
Spazi separati
Nel Regno rimangono in vigore norme volte a garantire la completa separazione tra i sessi, a partire dai banchi di scuola. Gli spazi pubblici – come i ristoranti – sono divisi in una sezione dedicata alle “famiglie” a cui possono accedere le donne e una per i soli uomini. Le occasioni in cui le donne possono interagire con uomini diversi dai membri della loro famiglia sono rare. A un recente dibattito sul femminismo svoltosi nella provincia di al-Qassim, gli uomini erano seduti una sala, le donne in un’altra.
Diritti senza diritti
Dal 2013, trenta donne siedono al Consiglio consultivo (Majlis al-Shura) nominato dal re (il 20% del totale), che fino ad allora era composto solo da uomini. Il decreto reale aveva allora parlato di «pieni diritti di partecipazione» ai dibattiti, al pari dei colleghi maschi. Lo stesso, è stato imposto alle donne il rispetto delle regole della sharia, compreso il velo, e l’obbligo di sedersi in posti riservati, ai quali possono accedere solo da un’entrata speciale.
Fin qui Eid.
Di straordinario impatto è l’inchiesta di Ola Salem per lo statunitense Newlines Magazin, pubblicata in Italia da Internazionale,
Ne riportiamo alcuni stralci: “ Una delle poche detenute ad aver ricevuto l’attenzione dell’opinione pubblica nel regno è stata Loujain al Hathloul. L’attivista per i diritti delle donne è stata arrestata e detenuta in un istituto Dar al Reaya per 73 giorni nel 2014, con l’accusa di aver tentato di entrare in Arabia Saudita dagli Emirati Arabi Uniti per protestare contro il divieto di guidare imposto alle donne nel regno. Secondo una fonte a conoscenza dei fatti, Al Hathloul è stata portata in una struttura nella Provincia orientale, perquisita (dopo essere stata denudata interamente tranne un pezzo di stoffa per coprire le parti intime), poi messa in isolamento. Al momento del rilascio, un funzionario le ha imposto di non parlare della sua detenzione.
Al Hathloul, che in passato aveva cercato di aprire una casa rifugio per donne vittime di violenze, è stata arrestata di nuovo nel 2018 e condannata da un tribunale che si occupa di terrorismo a quasi sei anni di carcere in un processo ritenuto da molti una farsa basata su accuse fasulle (il 10 febbraio è stata rilasciata)... Il dilemma tra restare in uno stato di detenzione simile alla tortura o intrappolata con un marito o un padre violento non lascia a molte saudite altra scelta che correre rischi alti, come scappare dal paese. Le donne fuggite raccontano di non aver avuto alternativa.
Rahaf Mohamed si è barricata in una stanza d’albergo nell’aeroporto di Bangkok nel gennaio del 2019 dopo aver fatto richiesta di asilo e invocato aiuto su Twitter. Ha rifiutato di essere rimandata alla sua famiglia. La sua storia è uno dei casi più famosi di donne in fuga dal regno e alla fine le è stato concesso asilo all’estero. Mohamed mi ha raccontato di essere fuggita da un tutore violento e da un sistema che ha ignorato le sue denunce. Ha confermato le condizioni simili a quelle di un carcere nei centri Dar al Reaya, ma non ha voluto scendere nei dettagli.
Mesi dopo la fuga di Mohamed, Maha Zayed al Subaie e sua sorella Wafa sono scappate dal regno quando il padre, a quanto pare un aguzzino seriale, ha colpito Maha davanti a suo figlio (essendo divorziata, la sua custodia era tornata dal marito al padre). Maha è andata via senza il figlio. “Le persone mi chiedono ‘Come hai potuto lasciare tuo figlio in Arabia Saudita e andartene?’. Ma io ho dovuto farlo”, racconta. “Non posso essere una madre debole. Posso essere solo una madre forte lontana da lui, non con lui. Più avanti capirà”.
Zayed al Subaie ha ottenuto asilo all’estero. Ha raccontato che se fosse rimasta avrebbe continuato a subire violenze dal padre o sarebbe finita in un centro Dar al Reaya.
‘Non esiste codice penale né chiarezza sulle azioni da considerare un reato’, spiega Al Dosari. ‘I giudici interpretano in modo soggettivo la religione. Ecco perché in tribunale ci sono incongruenze, perfino in casi simili. Una donna che è stata vista con un uomo in un centro commerciale può essere condannata a tre mesi di reclusione, un’altra a un anno e cento frustrate. Non c’è nemmeno un documento di condanna che spieghi le ragioni di queste decisioni. La legge in Arabia Saudita è vaga, le donne non sanno cosa è accettabile e cosa non lo è’”.
Non le basta ancora, ministra Bonetti?
Ecco allora quanto denunciato da Amnesty International alla vigilia del G20 del 20 novembre scorso, ospitato virtualmente dall’Arabia Saudita: “Abbiamo sollecitato i leader che vi prenderanno parte a chiedere conto alle autorità saudite della loro vergognosa ipocrisia sui diritti delle donne.
L’emancipazione delle donne spicca tra i temi in agenda, nonostante il fatto che le attiviste che hanno promosso le campagne per i diritti delle donne languono in carcere o sono sotto processo. In particolare, abbiamo invitato i leader del G20 di unirsi alla richiesta di scarcerare immediatamente e incondizionatamente Loujain (alla fine rilasciata pochi giorni fa, dopo oltre 1000 giorni di detenzione, ndr) al-Hathloul, Nassima al-Sada, Samar Badawi, Nouf Abdulaziz e Maya’a a-Zahrani, arrestate nel 2018 solo a causa del loro impegno in favore dei diritti umani.
“Per le autorità saudite il G20 è un momento importante: vogliono far conoscere al mondo la loro agenda riformatrice e far vedere che il loro paese è aperto agli affari. Nel frattempo, però, le autentiche promotrici delle riforme sono dietro le sbarre”, ha dichiarato Lynn Maalouf, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International.
“Invece di dare retta all’ingannevole narrativa del governo saudita, durante il vertice i leader del G20 dovrebbero prendere posizione in favore delle coraggiose attiviste il cui sincero impegno per i diritti delle donne è costato loro la libertà”, ha aggiunto Maalouf.
Le vere riformatrici
Delle cinque donne che si sono battute per l’emancipazione femminile quattro sono tuttora in carcere. Alcune di loro sono state sottoposte a maltrattamenti e torture e tenute in isolamento.
Nassima al-Sada e Samar Badawi
Nassima al-Sada e Samar Badawi sono state arrestate nell’agosto 2018. Badawi, oltre ad aver preso parte alla campagna per porre fine al divieto di guida per le donne, si è spesa per chiedere la scarcerazione di suo marito, l’avvocato per i diritti umani Waleed Abu al-Khair, e di suo fratello, il blogger Raif Badawi. Al-Sada ha svolto per molti anni campagne per i diritti civili e politici, i diritti delle donne e quelli della minoranza sciita della Provincia orientale dell’Arabia Saudita. Nassima al-Sada è uno dei cinque volti scelti per la consueta maratona di Amnesty in favore dei difensori dei diritti umani.
Nouf Abduaziz e Maya’a al-Zahrani
Nouf Abduaziz, blogger e giornalista, è stata arrestata nel giugno 2018. Lo stesso è accaduto all’attivista Maya’a al-Zahrani, che aveva pubblicato un post per chiedere la scarcerazione di Abdulaziz.
“Visione 2030”: mancano i diritti umani
Nel 2017 l’Arabia Saudita ha lanciato “Visione 2030”, un piano destinato a diversificare l’economia e a creare maggiori opportunità di lavoro per le donne e i giovani. Il Piano che tanto ha colpito il senatore Renzi al punto di parlare di un “nuovo Rinascimento” saudita.
Alla vigilia del vertice del G20, un gruppo di attivisti sauditi ha lanciato la “Visione del popolo per le riforme”, un piano sui diritti umani in 13 punti su cui le autorità sono chiamate ad agire. Abdallah Alaoudh, uno dei promotori, lo ha descritto come “il capitolo mancante nella Visione 2030”.
La “Visione del popolo” chiede il rilascio di tutti i prigionieri di coscienza, il rispetto dei diritti delle donne e di quelli dei migranti, l’abolizione della pena di morte e la fine delle violazioni del diritto internazionale nel conflitto dello Yemen.
“In questo fine settimana, per guadagnare consenso politico e opportunità economiche, le autorità saudite si attribuiranno il merito delle riforme per le quali hanno lottato le attiviste in carcere. Chiediamo ai leader del G20 di prendere la parola contro questa vergognosa ipocrisia. Le attiviste e gli attivisti che continuano a lottare per i diritti umani in Arabia Saudita sono le vere voci delle riforme: dovrebbero essere ascoltate invece di rimanere chiuse nelle loro celle”, ha concluso Maalouf.
Di questa “Visione del popolo per le riforme”, con ogni probabilità il leader di Italia Viva non ne conosceva l’esistenza. Né poteva chiedere lumi al suo munifico, quanto irascibile, principe ereditario.
Ministra Bonetti, ora le è chiaro come stanno le cose? E se sì, non prova un pizzico di vergogna?