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India, il coraggio e la forza di ricominciare delle giovani donne sfregiate dall'acido

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

AGRA (India) - I segni sul viso non riescono a nascondere la bellezza. Nonostante i lineamenti deturpati e la pelle bruciata. La ragazza che sta servendo un caffè ha un occhio semichiuso: si chiama Rupa. L’acido ha sciolto la sua pelle come una candela. E’ stata la sua matrigna, per impedirle di sposarsi: voleva che restasse a casa a fare la serva. Siamo ad Agra, nella parte occidentale dello stato indiano dell'Uttar Pradesh, dove il fenomeno delle giovani aggredite dall'acido è ancora assai diffuso e dove la maggior parte delle donne sfigurate ha meno di diciotto anni.  Nella caffetteria lavorano cinque ragazze sopravvissute ad aggressioni a base di acido. Il locale si chiama Sheroes Hangout: un gioco linguistico attorno alla parola “eroe”. Per rafforzarne il senso, hanno scelto di aprirla a poca distanza da una delle sette meraviglie del mondo, il Taj Mahal, simbolo dell’amore eterno (fu costruito dall'imperatore moghul Shah Jahan in memoria della sua adorata moglie, Mumtaz Mahal).  

Dove riprendere le fila della propria vita. Dentro, pochi tavolini ed una grande libreria con i testi di  Mandela, Gandhi, il Dalai Lama… Alle pareti, molte foto: sembrano vere modelle, sorridenti, in forma, mostrano con orgoglio il proprio volto. Ma dietro ad ognuna di queste foto ci sono anni di lavoro psicologico per imparare ad accettarsi, a raccontarsi, a mostrarsi. Tra queste mura colorate, stanno riprendendo le fila della propria vita, stanno ritornano alla quotidianità. Nella vetrinetta in fondo, il loro calendario 2017 e molti lavori di artigianato. 

Rupa che sognava di fare la stilista. “Hanno distrutto i nostri volti per cancellare la nostra vita, volevano che ci vergognassimo di noi stesse, che ci nascondessimo per sempre. E noi invece, al contrario, ci mostriamo con orgoglio. Stare vicino al Taj Mahal ci aiuta a farci conoscere”, dice Rupa. Nella caffetteria espone e vende le sue creazioni: sognava di fare la stilista e ci sta riuscendo. “Dopo la morte di mia madre, è stato difficile vivere con la mia matrigna. Stavo dormendo quando mi versò l’acido addosso. Avevo 15 anni. Aveva anche portato via l’acqua, per essere sicura che sarei morta”. Rupa arrivò in pronto soccorso solo sei ore dopo, grazie ad uno zio che fortunatamente si trovò a passare da casa. E’ rimasta tre mesi  al Safdarjung Hospital di New Delhi. “Mio zio si è indebitato fino al collo per farmi operare, mentre la mia matrigna è fuori su cauzione e vive con mio padre”.  

Il premio conferitole da Michelle Obama. Rupa e le altre ragazze sono attiviste dell’associazione Stop Acid Attacks che in questo momento sta aiutando più di trecento donne a reinserirsi nella società. Iniziando proprio da quel lavoro che tutti negano loro. “Nessuno voleva assumermi. Mi dicevano: Come ti prendo se la gente si spaventa quando ti vede?  Altri rispondevano che mi  avrebbero richiamato ma ovviamente non era vero”, racconta Laxmi. Anche lei aveva solo quindici anni quando fu colpita con l’acido. Michelle Obama l’ha premiata come Donna coraggio. Per otto anni si è chiusa in casa. Poi fuori, allo scoperto, in  grandi battaglie legali e petizioni al governo. Ora dirige una Fondazione, Chhanv, che aiuta le sopravvissute come lei. Anche William e Kate, duca e duchessa di Cambridge hanno voluto incontrarla durante la loro visita in India.

Laxmi e il suo sogno di fare la cantante. Quando fu aggredita sognava di fare la cantante: “ero in attesa di una chiamata da 'Indian Idol': andavo a scuola, a Delhi, ero nella VII classe, e avevo registrato delle canzoni. Cantavo sempre, ovunque”. Ma un giorno le arriva un messaggio. E’il fratello di una sua amica: “Mi ha scritto ‘Ti amo’ ed io non ho risposto. Il giorno dopo, un altro messaggio: ‘Voglio una risposta immediata’. E di nuovo non ho risposto”. Tre giorni dopo, Laxmi viene aggredita alla fermata del bus, a Delhi, in pieno giorno.  “Lui si avvicina, mi butta a terra, mi immobilizza e mi getta l’acido. D’istinto mi copro gli occhi e cosi facendo mi salvo la vista. Molte ragazze non possono più vedere né sentire…”

Nessuno accorre alle urla di dolore. “Tutti scappavano via - racconta Laxmi - in pochi secondi, ho perso la mia faccia. L’orecchio si è completamente sciolto,  le braccia erano nere”. La quidicenne arriva in ospedale grazie ad all’autista di un politico che si ferma e la soccorre. “Dopo dieci settimane di ricovero, mi guardo allo specchio…non potevo credere a quel che vedevo… I medici hanno dovuto rimuovere tutta la pelle del mio viso. Ho subito sette interventi chirurgici. Li ha pagati la famiglia dove mio padre lavora come cuoco. Ma ne servono almeno altri quattro prima della chirurgia plastica,  ammesso che io possa permettermelo”.  

Con il dolore fisico ha imparato a convivere. Ma con l’isolamento no ed è per questo che la sua “seconda vita” è tutta dedicata ai diritti delle donne: “I miei parenti hanno smesso di vedermi, ed anche i miei amici. Sono stata chiusa in casa per otto anni. Lui dopo un mese era libero, su cauzione, e poco dopo si è sposato”. Le cose andarono peggio con la morte del  padre: “Dovevo portare io il pane a casa ma non volevo smettere di lottare in tribunale.  Il mio avvocato nel frattempo aveva presentato una petizione alla Corte Suprema chiedendo il divieto di vendita di acido”. E cosi, piano piano, Laxmi entra in contatto con altre vittime ed esce dall’isolamento: diventano compagne di lotta. “Pensai: non abbiamo soldi per comprarci nuove facce però possiamo usare Internet per lanciare una petizione on line”. Un successo: ventisettemila firme. “Felicissime, siamo andate al ministero per consegnare la petizione. Abbiamo aspettato tre ore ma nessuno ha avuto il tempo di parlare con noi. Alla fine, abbiamo bloccato l’auto del capo”.

Un esempio di coraggio al femminile. Fuori dalla caffetteria c’è un grande murales: è il loro “set” fotografico preferito. Il volto grande della donna, sullo sfondo; il loro, piccolo e violentato, in primo piano. Un esempio di coraggio femminile, che non cede, neanche quando resta senza volto. E che poi si inventa un lavoro, anche quando nessuno la vuole assumere. “La nostra immagine – dice Rupia - racconta come possa esistere una bellezza ancora più grande: la lotta per la dignità e la vita. Noi siamo state capaci di passare attraverso la rabbia e il dolore restando noi stesse: ci sentiamo  belle dentro e questo è più importante perché dura tutta la vita, mentre la bellezza esteriore passa col tempo” 

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