Le diseguaglianze delle donne che aiutano i diritti di altre donne: l'8 marzo e le criticità della condizione femminile
L'8 marzo è tempo di bilanci. Quest'anno a maggior ragione, dopo che la pandemia, col suo eccezionale impatto sul mondo del lavoro e sulla vita familiare, ha reso più evidenti i nodi critici della condizione femminile. Nel rapporto col mercato del lavoro, l'ambito per eccellenza nel quale si è soliti misurare i progressi sul cammino della parità di genere, le donne hanno conosciuto quest'anno addirittura un arretramento: principali vittime della crisi (che ha investito con particolare virulenza alcuni dei settori in cui si concentra l'occupazione femminile), ma anche dell'ulteriore logoramento del precario equilibrio sul quale si regge la conciliazione tra vita professionale e vita familiare.
Certo, l'attenzione con la quale oggi si considera il problema è già di per sé un fatto positivo, che annuncia la fine di quella lunga fase di sostanziale invisibilità del lavoro familiare erogato gratuitamente da diverse generazioni di donne: lavoratrici impegnate nello sforzo quotidiano della doppia presenza - e sempre più spesso investite di una aspettativa di doppia eccellenza - e casalinghe "inattive" secondo la sarcastica definizione delle statistiche ufficiali.
Grazie all'impegno militante di molte donne, ma anche al crescente coinvolgimento dei loro partner nel lavoro familiare (per quanto con un impegno orario mediamente ancora di gran lunga inferiore), quello della conciliazione non è più un problema (solo) delle donne; anzi, si fa strada l'idea che dedicarsi alla cura dei figli e degli altri familiari sia non solo un dovere, ma anche un diritto degli uomini.
Per di più, i modelli illuminati di gestione delle risorse umane, con la loro enfasi proprio sulla "cura" dei dipendenti come fonte di vantaggio competitivo, rendono angusto e improprio lo stesso termine conciliazione, evocativo di un conflitto da gestire e inadeguato a catturare l'inscindibile (e preziosa) unitarietà di ogni persona. V'è dunque ragione di ritenere (o quanto meno di auspicare) che nel progetto di costruire un nuovo paradigma economico e sociale di cui molto si discute in queste settimane, l'equilibrio tra vita e lavoro - per le donne come per gli uomini - sia posto al vertice dell'agenda delle priorità del Paese.
Tale auspicio chiama in causa molteplici livelli di responsabilità: la politica, i sistemi di welfare nazionali e territoriali, le imprese, le famiglie...; ma, soprattutto, richiama la necessità di correggere lo stereotipo che continua a dipingere quello di cura come un lavoro con la "l" minuscola. Lo dimostra il fatto che troppo spesso ci si dimentica di come, da circa un quarto di secolo, il principale sostegno alla conciliazione, per le donne e per le famiglie italiane, viene dal lavoro di colf, baby sitter e assistenti domiciliari. In grande maggioranza donne e in circa sette casi su dieci stranieri/e; immigrate da paesi asiatici, est-europei, africani, latino-americani, spinte dal bisogno o da deliberati obiettivi di affrancamento ed emancipazione.
L'impressionante diffusione dell'occupazione irregolare - superiore a quella che si registra in qualsiasi altro settore dell'economia - è un'ulteriore prova di come si tratti di un lavoro che continua a non essere considerato esattamente come tale: ancor oggi, nonostante l'ultima operazione di regolarizzazione conclusasi in autunno, si stima che almeno il 60% degli occupati/e sia sprovvisto di un regolare contratto.
Né il programma di una ripresa sostenibile, né il raggiungimento degli ambiziosi obiettivi dell'Agenda 2030 (quello della parità di genere, ma non solo) potranno realizzarsi senza un profondo ridisegno di questo comparto che la pandemia ci ha confermato essere tanto indispensabile per la vita quotidiana delle nostre società quanto troppo spesso sguarnito di tutele e diritti.
Mentre la forte etnicizzazione di questi profili professionali è ad un tempo causa ed effetto dell'incuria sociale che grava su chi si prende cura delle persone e delle loro case: a ben guardare, al di là del deficit di regolazione istituzionale che continua a caratterizzarlo, sono le pratiche di costruzione del senso comune a perpetuare un'immagine svalorizzante del lavoro domestico e di cura, quasi appunto si trattasse di lavori dequalificati e privi di ogni contenuto professionale. Tema che, tra le altre implicazioni, pone in una luce nuova la stessa questione della parità di genere, declinandola anche secondo una gerarchia che riproduce il sistema delle disuguaglianze su scala globale.
Oggi, infatti, un impressionante numero di donne provenienti dal cosiddetto "Sud globale" è impiegato per le funzioni di aiuto domestico e di cura di anziani e bambini nelle case del Nord globale, riflettendo un sistema di interdipendenze che lega le famiglie dei paesi d'origine, coi loro bisogni di sopravvivenza e con le loro aspettative di mobilità, alle "nostre" famiglie, coi loro bisogni di cura e sostegno.
Ma riflettendo anche una dolorosa disuguaglianza globale, se si considera che la "liberazione" delle donne dei paesi più ricchi si realizza se non attraverso lo sfruttamento (fenomeno tutt'altro che raro in molti paesi d'immigrazione), comunque attraverso la subordinazione di altre donne. E finanche attraverso la ricomparsa di istituti pre-moderni, varianti contemporanee del personale di servizio che per secoli ha abitato nelle case dei padroni, rinunciando a una normale vita familiare ed affettiva, ovvero a quello che oggi chiamiamo il diritto alla conciliazione.
In ultima analisi, se le ragioni alla base della straordinaria crescita di questa sorta di "welfare parallelo" sono chiaramente individuabili nell'aumento dei bisogni di cura (collegato in particolare all'incremento della popolazione anziana) e nella rarefazione della figura della casalinga, quella che si è generata è una soluzione altamente imperfetta.
Esigenze non solo di equità sociale ma anche di sostenibilità tout court del nostro modello di sviluppo rendono urgente mettere in campo buona innovazione sociale, investimenti a sostegno delle famiglie (quanto meno di quelle obiettivamente non in grado di sostenere i costi di una assunzione irregolare), iniziative per la professionalizzazione degli addetti e la tutela degli assistiti (spesso altrettanto vulnerabili dei primi), schemi migratori adeguati a governare questa peculiare componente della domanda di lavoro, una migliore integrazione coi servizi territoriali e, non da ultimo, la moralizzazione dei datori di lavoro che li porti a rinunciare alle lusinghe del lavoro irregolare e sottopagato.
Ma quello a cui vorremmo assistere è anche un nuovo slancio da parte del movimento delle donne, coerente con una storia che ha avuto il merito di trarre dall'oscuramento il lavoro familiare e di individuare nella conciliazione la chiave di volta di una parità non solo formale. Se non ora, quando?
L'autrice è docente di sociologia delle migrazioni all'università Cattolica di Milano