Migranti e sottopagate, le «signore delle fragole» nel Sud della Spagna- Corriere.it
La maggior parte delle fragole che mangiamo viene dalla Spagna, in particolare dall’Andalusia, soprattutto nella zona di Huelva, dove il terreno sabbioso e il clima continentale favoriscono la crescita. E fin qui. Quello che pochi sanno però è quali siano le mani che raccolgono quelle fragole, e quali siano le sofferenze di chi lavora nei campi. A indagare il fenomeno è Chadia Arab, geografa e ricercatrice francese di origine marocchina autrice di «Fragole. Le donne invisibili della migrazione stagionale» (Luiss University Press 2020) suo primo libro tradotto in italiano. Arab è esperta di flussi migratori e discriminazioni di genere, insegna geografia sociale e delle migrazioni all’Università di Angers e domenica 14 mazo alle 16 , racconterà insieme ad Annalisa Camilli di Internazionale le vicende di migliaia di migranti stagionali (qui il link per seguire l’evento). Braccianti sottopagati e spesso in nero, che raccolgono le fragole che arrivano sulle nostre tavole. Un lavoro durissimo che si basa sullo sfruttamento, soprattutto quando si tratta di donne.
Chadia Arab Qual è il ruolo delle donne nelle migrazioni stagionali? E in quali paesi lavorano? «La migrazione circolare è cominciata con l’introduzione di “contratti in origine” [questa la denominazione ufficiale] con donne provenienti dai paesi dell’Europa dell’est, in particolare romene, polacche e a volte ucraine. Poi però l’ingresso di quei paesi nell’Unione europea ne ha molto agevolato la mobilità, e così la Spagna si è rivolta al Marocco. Nel 2007 i due Stati, Spagna e Marocco, firmano una convenzione che dà luogo alla migrazione stagionale di migliaia di marocchine che vanno a raccogliere fragole nella provincia spagnola di Huelva, nel sud della Spagna. Questo allo scopo di disporre di una manodopera efficiente e redditizia, e che non intende stabilirsi in Spagna. L’obiettivo è duplice: rendere lucrativa l’economia mondiale della fragola impiegando una manodopera malleabile, flessibile e docile, e al tempo stesso combattere l’immigrazione clandestina. Si tratta dunque di un sistema vantaggioso per tutti, ma che privilegia l’economico sull’umano. Difatti questo sistema economico è reso possibile da una scelta discriminatoria, quella di una migrazione tutta al femminile. Vengono scelte soltanto donne: sposate, divorziate o vedove, ma tutte con figli, poiché ciò che induce le donne a rientrare nel loro paese alla fine della stagione sono proprio i legami familiari. Le donne sono dunque coinvolte a partire dal paese di provenienza, cioè vengono scelte già in Marocco; vanno a lavorare in Spagna per qualche mese, fra febbraio e giugno, ma a fine stagione hanno l’obbligo di ritornare a casa loro in Marocco».
Qual è il profilo di queste donne? Lavorano anche nelle campagne del loro Paese?«Nel quadro di questo programma sono stati fissati dei criteri di selezione per garantire che le donne faranno ritorno nel paese di provenienza. Si tratta di condizioni chiaramente discriminatorie: essere donne e avere figli piccoli. Benché nella scelta non entri in gioco il criterio della povertà, si tratta chiaramente di donne vulnerabili, precarie e povere: le nostre indagini lo hanno largamente dimostrato. Sono donne per le quali partire non è una scelta, bensì una necessità per tirarsi fuori dalla difficile condizione economica che vivono nel paese di provenienza. Dalle mie ricerche risulta che la tipica lavoratrice stagionale ha fra i 35 e i 45 anni, è divorziata o vedova, e proviene dall’ambiente rurale; ha tre figli, di età media compresa fra i 10 e i 20 anni; è analfabeta e non ha ricevuto un’educazione scolastica; proviene da una famiglia numerosa. Quasi l’80 per cento di queste donne in patria percepisce un reddito mensile medio inferiore ai 1.500 dirham, cioè meno di 150 euro: è estremamente poco per quelle che hanno famiglie numerose con molte persone a carico. In Marocco, l’equivalente dello Smig francese (il salario minimo lordo), si aggira sui 2.500 al mese, cioè 250 euro. Ma il 97 per cento di queste donne non raggiunge lo Smig, e difatti, di tutte le marocchine che abbiamo sentito, soltanto due in patria guadagnavano fra i 2.500 e i 3.500 dirham. Insomma, nel loro paese queste lavoratrici rientrano nelle categorie povere e precarie, e benché nel programma di “contratti in origine” non sia detto esplicitamente, sono scelte per questi motivi. A queste donne, la migrazione stagionale appare come una vera opportunità, che colgono nella speranza di migliorare il loro tenore di vita. Questo è anche uno dei fattori che spiegano il successo del programma di “contratti in origine”: donne di condizione tanto modesta preferiscono lavorare in Spagna e sperano di tornarci anche l’anno seguente, perciò si adattano alle esigenze dei datori di lavoro, i quali possono rinnovare loro il contratto, oppure cessare unilateralmente di impiegarle senza dover motivare la decisione. Queste lavoratrici, insomma, non hanno altra scelta che accettare il rigido inquadramento e le dure condizioni di lavoro che vengono loro imposte sia in Spagna sia in Marocco, dove per la maggior parte già lavoravano nell’agricoltura».
Arrivano da sole oppure viaggiano accompagnate dai mariti?«La dimensione di genere è importantissima: è un asse di riflessione centrale, anzi ormai indispensabile per le mie ricerche. Quella cui siamo di fronte è chiaramente una migrazione sessuata: le lavoratrici sono scelte perché donne, e infatti gli uomini sono esclusi dalla selezione. Quindi i coniugi (per quelle che sono sposate) restano in Marocco per tutta la durata della stagione delle fragole. La problematica di genere è cruciale in quanto fattore che spiega l’accumulo delle disuguaglianze e delle strategie poste in atto. Per giunta, l’impostazione di genere, ovvero intersezionale (termine che si riferisce all’intreccio delle dominazioni di sesso, razza e classe) evidenzia criticamente il lavoro di quelle ricercatrici e di quei ricercatori che non approfondiscono le differenze fra uomini e donne nel contesto delle migrazioni. Invece queste differenze sono un fattore utile a capire il fenomeno. Figuratevi che a volte, quando le lavoratrici marocchine rientrano in patria, i rapporti di genere in seno al loro nucleo familiare si invertono».
In quali Paesi europei vanno a lavorare queste donne? «In Italia? Quelle che ho studiato io vanno principalmente in Spagna. Alcune vengono anche in Italia, ma non subiscono un inquadramento rigido come quello che ho appena descritto».
La copertina di Fragole (Luiss)Oltre allo sfruttamento nei campi, subiscono altri abusi?«Comincio con il ritornare sullo sfruttamento lavorativo. Gli assi sono due: le condizioni di vita e le condizioni di lavoro. Le seconde a volte sono difficili: da una parte, la loro vita quotidiana è segmentata da una frontiera invisibile, quella della lingua. La comunicazione è un elemento centrale per la loro integrazione sul posto di lavoro, nel quadro legislativo dei loro diritti e nella loro più ampia integrazione sociale in Spagna. Queste donne sono per lo più analfabete, e i corsi di lingua danno risultati, ma restano limitati se non inesistenti. Quanto alle condizioni di vita, hanno un duplice aspetto. Nel quotidiano, la loro coabitazione all’interno delle case è difficile da gestire sul piano sociale, perché possono scoppiare litigi, visto che a volte sono costrette a diversi in 12 delle camerette da quattro. Io ho avuto la possibilità di trascorrere una settimana in compagnia di una di loro e delle sue quattro compagne di stanza. Dalle inchieste che ho condotto a partire dal 2012 è emerso che a volte queste donne abitavano nei boschi, in prefabbricati il cui livello di comfort era rudimentale. Si tratta insomma di condizioni che si possono denunciare anch’esse, salvo che un simile livello di prossimità consente alle donne di dar vita a una comunità e di aiutarsi a vicenda. Precarie sono anche le condizioni dei trasporti a loro disposizione. Le coltivazioni di fragole spesso si trovano a grande distanza da centri urbani in cui le donne possano fare la spesa, e così per raggiungere un centro urbano sono costrette a camminare o a fare l’autostop. E’ dal 2010 che queste donne ci informano di abusi sessuali da loro subiti. Ma è nel 2018 che è scoppiato lo scandalo delle molestie sessuali ai loro danni, dopo che alcune di loro hanno sporto denuncia. Quelle che hanno osato farlo nel 2018 hanno dato prova di grande coraggio, perché come prima cosa è stato necessario rompere l’omertà, il silenzio in merito agli abusi sessuali. Questi sono sempre esistiti ma per molto tempo sono rimasti celati, sono rimasti un non-detto: le donne avevano paura di parlare perché temevano che non le avrebbero fatte tornare l’anno seguente. Per le “signore delle fragole”, più che di una migrazione circolare si tratta di una vera e propria migrazione di sopravvivenza, e per essere richiamate l’anno dopo devono lavorare nel modo più coscienzioso, docile e sottomesso possibile, e al tempo stesso tacere. Tacere delle loro condizioni di lavoro, delle loro rivendicazioni sindacali, del dolore della separazione dai figli e anche, anzi soprattutto, degli abusi sessuali di cui alcune sono state vittime. Oggigiorno certe cose vengono alla luce del sole: nel 2019 quattro di loro hanno sporto denuncia, dei casi sono stati rivelati dai mass media ancora nel 2020. Queste donne subiscono l’obbligo al silenzio perché la minima ribellione per loro significherebbe espulsione e ritorno nel paese di provenienza senza nessuna certezza di poter tornare l’anno dopo. Quando sorge una controversia la Spagna rispedisce le migranti a casa loro; possono essere espulse e gettate via in qualsiasi momento. La migrazione circolare è anche questo: una migrazione scelta, scelta a partire dal paese di provenienza ma scelta anche in Spagna, dove tengono soltanto le “migliori”, quelle che rendono di più le più docili, le meno rivendicative, le più obbedienti… Bisogna aggiungere che queste violenze sessuali s’intrecciano alla violenza della privazione dei diritti e alla libera circolazione. Se oggi queste donne sono ancora in Spagna, è per varie ragioni. Primo, perché hanno sporto denuncia, e se vogliono testimoniare devono restare lì. Poi perché alcune hanno situazioni familiari complicate. Per loro, rientrare in Marocco potrebbe addirittura essere pericoloso, a causa del forte stigma che si portano dietro, e quindi, dopo due anni, sono ancora in Spagna. E’ ora di rendere loro giustizia, è ora che i loro diritti siano riconosciuti in un paese come la Spagna, cioè che si riconosca che sono sfruttate sul lavoro e che hanno subito abusi sessuali, è ora di restituire a queste donne la loro dignità affinché possano tornare in Marocco a testa alta. Hanno bisogno di lavorare, di sovvenire alle esigenze della famiglia rimasta in Marocco (ricordate? è per questo che sono venute in Spagna!) e urge che siano regolarizzate, perché fino a quando non avranno i documenti a posto, potranno sempre cadere in mano a malintenzionati che le sprofonderanno ancor più nella condizione di sfruttamento e di vulnerabilità in cui già versano. Tale riconoscimento è una questione di diritti delle donne, diritti dei migranti, diritti a un lavoro dignitoso, e più in generale, una questione di diritti umani».
Che vita fanno queste donne in Europa? «Per fortuna, i casi di molestie sessuali non sono la norma. Molte di queste donne sono ben contente di lavorare in Spagna: apprezzano il loro lavoro e soprattutto i vantaggi economici di cui godono grazie a questa migrazione. Per giunta imparano a conoscersi e a conoscere un paese nuovo per loro. Tra di esse ci sono delle veterane, cioè donne che vengono a lavorare in Spagna da molte stagioni e ormai hanno fatto l’abitudine a vivere fra i due paesi».
Si sa quante straniere lavorano nelle campagne dei paesi europei? «Nel 2009 il numero di queste lavoratrici ha raggiunto le 17 mila. Nel 2010, nel contesto di una grave crisi che colpito in particolare l’Europa mediterranea (Grecia, Italia e Spagna), il numero dei contratti con donne provenienti dal Marocco è crollato: appena 6 mila. La crisi che ha investito in particolare la Spagna ha provocato fra il 2012 e il 2016 il netto calo del numero delle marocchine, sceso a una media di 2 mila e 200. Il 2017 è stato contraddistinto da un ritorno delle “ripetenti” (chiamiamo “generiche” quelle che partono per la Spagna per la prima volta, e “ripetenti” quelle che hanno già fatto almeno una stagione nelle coltivazioni spagnole di fragole), di quelle che avevano già lavorato in Spagna negli anni precedenti e non erano più tornate dal 2011, e infine di nuove reclute. Nel 2018 e nel 2019 i numeri delle lavoratrici stagionali sono tornati a salire, raggiungendo le 1.500. Nel 2020, con la crisi del Covid, hanno potuto fare la stagione in Spagna soltanto quelle che erano partite prima della chiusura delle frontiere in marzo: ciò spiega la cifra di 7 mila. Ma la crisi sanitaria mondiale potrà avere conseguenze anche sul numero di donne che partiranno per la Spagna quest’anno. Ora, le marocchine sono sempre più ricercate dai datori di lavoro spagnoli, tanto che costituiscono il contingente nazionale più numeroso fra tutti quelli oggetto dei “contratti in origine”. Gli spagnoli continuano a reclutare svariate migliaia di marocchine anche in questo tempo di crisi: sono molto apprezzate perché il sistema di gestione funziona abbastanza bene, e perché ogni volta che tornano si mostrano sottomesse.
Che cosa si fa per tutelare i loro diritti?«Su un certo numero di diritti, i due paesi potrebbero apportare un miglioramento, se volessero tutelarle appieno: penso al diritto a un alloggio decente quando si trovano in Spagna. A mio parere, occorre anche regolarizzare queste donne, se si vogliono combattere le violenze che subiscono, se si vuole che abbiano i documenti a posto e anche il diritto alla mobilità. Quanto a quelle che hanno subito aggressioni sessuali, sono dieci, e sono ancora in Spagna dal 2018. Vivono una situazione difficile, anche se assistite da un’associazione di avvocat* dell’Ausaj, l’associazione spagnola che riunisce gli utenti dell’amministrazione della giustizia. Le donne rimaste in Spagna dal 2018 e a noi note sono dieci, ma di sicuro ce ne sono altre di cui non siamo a conoscenza. Nel 2019 hanno sporto denuncia altre quattro lavoratrici, e altre ancora lo hanno fatto nel 2020. Le/gli avvocat* dell’Ausaj hanno spiegato molto chiaramente la situazione delle donne vittime di sfruttamento sul lavoro e di abusi sessuali. Hanno parlato di corruzione politica e giuridica e dell’impunità che ha fatto seguito a quelle denunce. Sono partiti all’attacco sul versante delle aggressioni sessuali, ma anche su quello dello sfruttamento e della tratta di esseri umani. Yolanda Diaz, la ministra dell’Economia della Spagna, ha addirittura osato il paragone fra lo schiavismo e le condizioni di lavoro nelle coltivazioni del sud della Spagna, e nel maggio 2020 ha annunciato nuovi provvedimenti per varare una campagna dell’Ispettorato del lavoro con controlli nelle sedi delle cooperative di produttori di fragole della provincia di Huelva e, più in generale, nelle aziende agricole dell’Andalusia. Diaz ha denunciato i maltrattamenti e ha proposto di rinforzare i controlli contro “lo sfruttamento dei lavoratori, il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, lo schiavismo o pratiche assimilabili allo schiavismo”. Nel quadro dei previsti controlli da parte dell’Ispettorato del lavoro, Diaz propone di indagare sulle lesioni fisiche, sulle violenze e gli abusi fisici, sull’intimidazione e il ricatto eventualmente praticati dai datori di lavoro nei confronti di lavoratrici e lavoratori; di verificare i versamenti delle retribuzioni e la copertura sanitaria, ma anche le clausole dei contratti di lavoro, la libertà di circolazione all’interno delle aziende agricole e i casi di lavoratori trattenuti contro la loro volontà. A mio parere è importante conoscere la realtà del lavoro di queste “signore delle fragole”. E’ importante affinché possano tornare in Marocco a testa alta. E’ importante che siano sostenute dall’opinione pubblica. E’ importante che non siano diffamate. E’ importante credere alla loro parola e rispettarla. Queste donne hanno paura di parlare, paura di rientrare in Marocco, provano vergogna e forse temono la reazione dei loro familiari, oltre a temere di non poter tornare a lavorare in Spagna l’anno seguente. Le lavoratrici stagionali coinvolte in questo processo hanno bisogno di essere ascoltate e difese, e che si renda loro giustizia in Spagna. Hanno bisogno di essere accompagnate e sostenute, hanno bisogno che in Marocco la loro parola sia riabilitata. Semplicemente, hanno bisogno di vedersi restituire la dignità.
Dietro queste donne ci sono delle vite. Nel suo libro lei racconta la storia di Saida e di altre donne...« Ho condotto un’inchiesta fra un centinaio di donne: in 65 casi per mezzo di questionari e in una quarantina di casi nel quadro di focus group o per mezzo di interviste individuali. Nel mio libro riferisco in dettaglio i racconti di cinque migranti. comincio con Saida, della quale parlo già nell’introduzione, e che per me ha rappresentata la chiave d’ingresso in questo mondo. Saida è divorziata, ha un figlio maschio e in passato ha lavorato nel settore agricolo ad Agadir, nel Marocco del sud. Prima del 2018, anno in cui la sua posizione è stata regolarizzata, Saida è rimasta sempre in Spagna, dapprima da clandestina, cioè trasgredendo le norme imposte dalla migrazione circolare. Poi racconto la storia di Zahra, una madre single, cioè una donna che in Marocco ha avuto un figlio senza essere sposata, cosa che le è costata un forte stigma sociale. E’ bene ricordare che in Marocco i rapporti sessuali fuori dal matrimonio sono ancora proibiti e possono essere puniti con il carcere da un mese a un anno. Queste migrazioni sono interessanti anche per questo motivo: che consentono a donne rinnegate dalle famiglie quando erano ancora in Marocco di ritrovare una qualche dignità per mezzo del guadagno, che in certi casi assicura loro una certa autonomia ed emancipazione: ed è proprio in caso di Zahra. Ma c’è anche il caso di Halima, tre figli e un marito malato: lei parte proprio per aiutare lui, che a causa della sua infermità non può più lavorare. C’è Fatiha, divorziata da un marito violento, che tornata in Marocco ha potuto permettersi di vivere un po’ più serena. E infine c’è Samira, vedova, che in Marocco faceva la domestica e poi ha sposato un migrante proveniente dall’Africa subsahariana. Perché anche le relazioni interculturali sono un arricchimento per queste marocchine, che andando a lavorare all’estero hanno occasione di incontrare lavoratori delle più diverse provenienze: algerini, romeni, senegalesi, maliani eccetera».
(Traduzione delle risposte dal francese di Marina Astrologo)
12 marzo 2021 (modifica il 12 marzo 2021 | 15:54)
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