Diritti delle donne: a che punto siamo?
Leggi sull'aborto, equità salariale, violenza: la strada per l'effettiva parità di genere è ancora lunga. Ma molti successi sono stati già ottenuti e ricordarli fa bene all'anima. Ecco una lista di temi "caldi" cari alle donne, per fare il punto su ciò che si è già fatto e su quanto ancora c'è da fare.
Aborto: un diritto da difendere
Difficile contenere la gioia delle argentine (foto in apertura) quando lo scorso dicembre hanno – finalmente! – conquistato la possibilità di abortire legalmente. In America Latina si tratta di un diritto prezioso considerato che nella Repubblica Dominicana, in Nicaragua e a El Salvador questa possibilità non esiste e che il parlamento dell’Honduras ha da poco inasprito la legge. In Europa non va meglio alle polacche, che dopo aver manifestato per mesi hanno visto la Corte Costituzionale pronunciarsi contro l’aborto, salvo caso di stupro o pericolo di vita. E da noi? Sebbene minacciata, la legge 194 è ancora sana e salva, ma la sua applicazione è resa ardua dall’aumento degli obiettori di coscienza: più del 70 per cento dei ginecologi e il 46 per cento degli anestesisti. Gli aborti farmacologici (con la pillola RU 486) nel 2018 sono stati il 21 per cento del totale, mentre in Francia, Svizzera, UK e Portogallo si va dal 70 all’80 per cento. Sul fronte del diritto alla gestione del nostro corpo, abbiamo ancora tanto da fare.
Molte nonne, poche madri
Il coronavirus ha colpito gli uomini quattro volte più delle donne. Il perché non è ancora chiaro, ma è interessante leggere questo dato alla luce di un altro, più noto: gli uomini vivono in media 5 anni in meno delle donne (80,8 contro 85,2, dati Istat). Per capire come mai, se da una parte ci si orienta verso una spiegazione culturale (le donne si alimentano meglio, conducono una vita più sana e fanno prevenzione), evidenze scientifiche aggiungono una spiegazione genetica: un recente studio su 101 specie di mammiferi ha dimostrato che le femmine vivono il 18 per cento più dei maschi; nel genere umano la differenza è del 7,8 per cento ma insomma, che siano bipedi o quadrupedi, le femmine vivono comunque di più. Questo dato contribuisce (insieme al calo della natalità) a disegnare un Paese sempre più vecchio. La maternità viene rimandata o evitata: nel 2019 i nati sono stati 420.084, quasi 20.000 in meno rispetto al 2018 e oltre 156.000 in meno del 2008. Il 45 per cento delle donne tra i 18 e i 49 anni non ha figli. Si diventa madri a 31,3 anni. Il numero medio di figli è di 1,18 (il più basso di sempre). Per invertire la tendenza restiamo in trepidante attesa di politiche sociali illuminate.
Donne e politica: yes, we can!
Se negli Stati Uniti l’amministrazione Biden/Harris fa il pieno di quote rosa, l’Europa non sta a guardare. In Estonia si è appena insediata la prima donna premier, Kaja Kallas, che andrà ad affiancare nel governo del Paese la presidentessa Kersti Kaljulaid. Nel nord Europa il connubbio donne & politica funziona piuttosto bene: in Islanda il primo ministro dal 2017 è Katrín Jakobsdóttir; in Finlandia Sanna Marin dal 2019, in Lituania dal 2020 Ingrida Simonyté. A sfatare il mito secondo il quale le donne impegnate nella cosa pubblica rischiano di dover rinunciare alla maternità, ecco due esempi eccellenti: Nancy Pelosi (in foto) , portavoce della Camera dei rappresentanti degli Usa, che di figli ne ha cinque; e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, diventata mamma sette volte. A livello mondiale i progressi sono lenti: secondo l’agenzia UN Women solo in 21 Paesi ci sono donne capi di Stato o di governo; 116 Stati non hanno mai avuto una donna leader. In Italia nel 1994 in Parlamento c’era un 13 per cento di donne, ora è il 36 per cento. Passi enormi se si pensa che nell’Assemblea costituente, nel 1947, su 556 deputati furono elette solo 21 donne. Poche, ma autentiche pioniere.
Il corpo è mio: no al body shaming
È di poche settimane fa la decisione del sito di incontri Bumble di “bannare” chiunque usi linguaggio da body shaming sia nel proprio profilo, sia nelle conversazioni con i potenziali partner. Un sondaggio effettuato da Bumble in UK ha rilevato infatti che il 23 per cento degli utenti ha subito body shaming su una app di dating o sui social, con una conseguente sensazione di insicurezza, rabbia, disagio. Intanto negli Usa il dibattito è acceso tra le sostenitrici della body positivity (la “semplice” spinta ad amare e accettare il proprio corpo con i suoi difetti) e quelle della fat acceptance (un'autentica e feroce denuncia contro il pregiudizio sociale che colpisce chi è grasso). Il body shaming – che diventa fat shaming quando si concentra sulla forma fisica – è a tutti gli effetti una forma di bullismo, scrive Federico Faloppa nel suo libro #Odio: Manuale di resistenza alla violenza delle parole (Utet). Così come è bullismo lo slut shaming perché mira, scrive Faloppa, «a far sentire una donna colpevole o inferiore per presunti comportamenti che si discostino dalle aspettative di genere tradizionali, come il vestirsi in modo provocante». Quella di indurre nelle donne un senso di vergogna (shame, per l'appunto) è una vecchia attitudine molto diffusa in contesti patriarcali. Che però, dovrebbe avere ormai i giorni contati.
Femminismo all inclusive
Femminismo “classico” bye bye. La quarta ondata femminista – quella degli anni dei social, del #MeToo e del #BlackLivesMatter – ha sposato in pieno il principio di intersezionalità. L’idea è che a essere oppresse dal sistema etero patriarcale non siano solo le donne, ma anche, per fare qualche esempio: i neri, gli appartenenti alla comunità Lgbtq, le persone con disabilità e così via. Le discriminazioni si sommano e si intersecano: infatti se una donna è anche nera e lesbica sarà discriminata tre volte, per tre motivi diversi. Il punto, quindi, è unire le battaglie, fare squadra tutte e tutti per sconfiggere un sistema iniquo. L'Italia si mostra particolarmente resistente su temi come omosessualità e gender fluidity: secondo l’Eurobarometro sulla discriminazione 2019 della Commissione Europea, che presenta le percezioni dei cittadini dell’UE sull’accettazione sociale delle persone Lgbt e sulla discriminazione basata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, il 76 per cento dei cittadini europei concorda che le persone Lgbt dovrebbero avere gli stessi diritti degli eterosessuali. La percentuale scende al 68 in Italia: molto al di sotto di Paesi come Svezia, Olanda e Spagna, dove circa il 90 per cento degli intervistati ha risposto positivamente. Anche il livello di omofobia e transfobia nello sport in Italia è superiore alla media europea. Da un Paese anagraficamente anziano e geneticamente maschilista forse non ci si può aspettare troppo. Ma il cambiamento – lento eppure rivoluzionario – è in atto.
Violenza sulle donne: c'è molto da fare
I dati sono ancora sconfortanti: nel 2020 in Italia ogni 6 giorni una donna è stata uccisa da un uomo della sua famiglia, o con il quale aveva una relazione; durante il lockdown una ogni 2 giorni. Secondo l'Onu una su tre subisce violenza nella sua vita; 200 milioni sono sottoposte a mutilazioni genitali. Ma qualche dato positivo c'è: secondo Unicef le spose bambine sono diminuite del 15% nell'ultimo decennio. Ancora troppe (12 milioni all'anno), ma 25 milioni in meno rispetto alle previsioni di 10 anni fa. Grazie al lavoro dell'Onu e delle tante ong.
Tutte in campo
Sono aumentate negli ultimi 10 anni, eppure le italiane che praticano sport restano meno dei maschi: il 48 per cento. Solo il 28 per cento degli atleti tesserati alle federazioni sportive è di sesso femminile; le allenatrici sono il 19,8 per cento; le dirigenti di società il 15 per cento. Se da noi le barriere sono invisibili, ci sono Paesi dove l'accesso allo sport è complicato dalla legge: poche settimane fa Samira Zargari, ct della nazionale iraniana di sci alpino, non è partita per i mondiali di Cortina perché il marito ha potuto impedirglielo. Eppure, tra le atlete musulmane che usano lo hijab di materiale tecnico pur di gareggiare e i successi della nostra nazionale di calcio, si intravede un futuro decisamente più roseo.
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